I due termini, pur
esprimendo azioni non concordanti, danno alcune inconfondibili
indicazioni sul costume e modo d’essere, passato e
presente, di una larga fetta della nostra società, non
esclusivamente siciliana. In tale fattispecie si
potrebbe ascrivere il comportamento di gran parte dei
politici, dei pubblici dipendenti e della burocrazia, in
genere. Di seguito, in tal senso, si tenterà di fare una
riflessione.
Annacari,
in lingua italiana non troviamo una traduzione
perfettamente rispondente. A tal uopo possiamo
richiamare il testo letterario di Roberto Alajmo “L’arte
di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” ed. Laterza,
2010, dove
troviamo: «Annacare / annacarsi = affrettarsi e
tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile
che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di
spostamento».
Continuando con Massimo Maugeri: “Ti vuoi annacare, che
si è fatto tardi? Siamo in ritardo, la vuoi smettere di
annacarti? Giusto per rendere l’idea. Il titolo è
azzeccato, giacché la Sicilia è tutto e il contrario di
tutto. Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo
evidenzia lo stesso Alajmo – è fornito nell’ambito delle
feste religiose, dove Madonne, santi e canderole vengono
portati in processione con un andamento danzante,
ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo)
in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole
retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di
annacarsi è una sorta di sintesi tra una appariscente
tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che
conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con
il minimo di spostamento. L’arte di annacarsi, dunque.”
'A NACA A VENTU
di Giorgio Guarnaccia |
L'AMACA A VENTO |
'Na para 'i cordi, stinnuti ni la
stanza attaccati a ddu vucculi nò muru, 'na
cuperta furriata ccu pacienza, ddu ligna,
misurati, 'i lignu ruru alluntanunu 'i cordi
e fanu panza ni la cuperta; fattu accussì
niru sicuru ppi lu picciriddu, ca comu è
usanza, veni annacatu puru quannu è scuru. |
Una coppia di corde, distese nella stanza,
attaccate a due anelli nel muro, una coperta
girata con pazienza, due legni, a misura, di
legno duro allontanano le corde e fanno
pancia nella coperta; fatto così un nido
sicuro per il bambino, che come è di usanza,
viene dondolato anche quando c’è buio. |
Ed ancora, piace citare quanto scritto da Nino Cangemi,
riportato su Sicilia Informazioni:
[L’etimologia va cercata nel greco “nake”, culla
fabbricata con vello di pecora. Nelle case dei contadini
siciliani, la “naca” veniva riposta sopra il letto degli
sposi, attaccata al soffitto. Era una sorta di amaca in
cui si adagiava l’infante. Sollecitata dai genitori, con
un leggero tocco, “la naca” si dondolava. Ma restava ben
salda alle travi che la trattenevano. Ecco la magia
dell’”annacare”: un movimento ondulatorio che non
comporta alcun spostamento; il girarsi su se stesso
mantenendo l’immobilità.
Si capisce, perciò, come l’”annacare” abbia assunto una
valenza metaforica riferibile alla politica o alla
burocrazia. Il politico siciliano pratica con destrezza
l’arte dell’”annacata”. Simula, dissimula, predica
riforme e controriforme, cuce e ricuce, tesse alleanze e
le vanifica, stringe accordi e provoca disaccordi, fa e
disfa programmi, promette, illude, disillude, invia
comunicati, li rettifica, li smentisce, non dorme la
notte e neppure il giorno. La sua attività si direbbe
frenetica, convulsa, preda di uno stato maniacale.
Eppure non muove una foglia, non sposta una virgola:
tutto rimane come prima. I risultati sono sotto gli
occhi di tutti: servizi sanitari inefficienti, opere
pubbliche incompiute, scuole fredde d’inverno e
surriscaldate in primavera.
Bravo ad “annacarsi” è pure un suo affine e subalterno:
il burocrate. Quello che ha imparato come scrivere una
lettera in dieci fogli quando ne basterebbe uno. Perché?
Per confondere l’avversario: cioè il cittadino. Che
consuma, con calcolata perizia, la “sapienza” del
differire. Che ha scalato i gradini, sino ad arrivare ai
più alti, modulando, nelle più barocche intonazioni, la
stessa formula: “non sono competente”. Che soffoca tra
le carte di pareri e contro pareri in cui spicca,
segnata in rosso, l’espressione regina del dubbio:
“parrebbe”. Che ha imparato a gestire gli affari dei
fondi comunitari, vanificando i progetti nelle pastoie
delle vecchie procedure mescolate alle nuove.
Ma “annacare” significa anche altro. Ostentare baldanza,
compiacersi in atteggiamenti vanitosi, mostrarsi per
destare negli altri ammirazione e invidia. E chi più del
mafioso si “annaca”? Notava Virgilio Titone in “Storia,
mafia e costume in Sicilia (1964): “Il mafioso è
innanzitutto un uomo che si compiace di se stesso. Egli
ci guarda e ci ascolta: quel suo parlare a monosillabi,
a cenni, per sottintesi, quel controllo continuo del
gesto, della parola, del portamento sono una maschera…
un’uniforme e quasi una bandiera di un corpo
privilegiato”.
E, paradosso su paradosso, in alcune zone del Catanese e
dell’Ennese “annacare” sta per affrettare. Smuoviti, fai
qualcosa, “annacati”.
L’ambivalenza del verbo è colta con ironia da Camilleri.
Ne “Il gioco della mosca” osserva: “E’ universale
convinzione che una donna che si “annaca” tutta nel
camminare, pubblicamente proclama la sua scarsa
serietà”. Diverso è per l’uomo. “Io domandai un favore
al sindaco e lui mi annacò per un anno senza concludere:
mi illuse, mi cullò nella speranza, in definitiva, mi
prese in giro”. Anche nell’”annacare”, come si vede, non
vi è parità tra uomo e donna…].
A tal proposito va ricordato il proverbio: A fimmina
ca annaca l'anca, se non è buttana picca ci manca
(La donna che dondola l'anca, che sculetta, se non è puttana poco ci
manca).
In conclusione, iri annacannusi viene detto di
uomo che si va dimenando; annaculiari sta per
agitare, muovere in qua e là, dimenare.
A proposito del dimenarsi in alcuni pubblici uffici
ricordo di avere conosciuto un dirigente che soleva paragonare le istanze,
e le lettere in genere, a delle palombelle, dicendo che
"Dove si posano lasciano le tracce" (alludendo alle loro
defecazioni). Per cui bisognava mettere in atto ogni
sorta di stratagemma che
ne consentisse l'assegnazione ad altra struttura.
E allora veniva fuori che: "Non è di mia competenza", "Il personale
assegnatomi non ha la necessaria qualifica", "Non ho gli
strumenti per poter fare ...", "Non mi sono state
assegnate le necessarie risorse finanziarie", ecc.
Se tutto ciò non bastava a "fare posare altrove la
palombella", si predisponevano delle
note di risposta, nelle quali si dava vita ad una sorta di
"memorie difensive di carattere legale", costellate da
"il ... comma, dell'articolo ..., del decreto ...., così
come modificato con legge ...." e così via, fino ad
arrivare al "combinato disposto", badando a 'ntrizzari
le singole parti in modo da rendere il contenuto delle
stesse note non facilmente comprensibile. Spesso si
riempivano diverse pagine per richiedere una semplice
dichiarazione, una integrazione documentale, o magari
per una banale e quasi inutile convocazione.
C'è da dire che il dimenarsi del dipendente pubblico è
diventata sempre più funzionale al comportamento
discriminatorio e dilatatorio del politico.
Ogni azione doveva
sottostare alla rigida "regola" del rinvio e del
"non
fare". Per cui si
tiravano fuori frasi del tipo: "Mi dia il tempo di
cercare l'istanza" (anche dopo l'introduzione dei
sistemi informatici di protocollazione); "Non ho avuto tempo di esaminare la
pratica"; "Sono stato impegnato in altre
pratiche urgenti"; e
addirittura si arrivava a dire "Non ho avuto nemmeno il tempo di fare le
mie
cose". E quando non si riusciva ad inventare delle
scuse "credibili", si finiva col dire: "Oggi non è jurnata!".
Nel rispetto di tale regola
molti facevano ricorso alle cosiddette "malattie
programmate", ossia a quelle malattie che arrivavano
puntualmente tutte le volte che bisognava concludere
l'istruttoria di una pratica, contribuire allo
svolgimento delle attività d'Ufficio, ecc. Quando la
malattia "non arrivava" (magari per "indisponibilità"
del medico di famiglia), si faceva ricorso alle
visite mediche dei figli, alle cosiddette "104" (www.qds.it/18355-legge-104-speculazione-indecorosa.htm),
alla donazione di sangue, alla necessità di un permesso
giornaliero, al mancato avviamento della macchina, ecc.
C'è da chiedersi quanti
sono i dipendenti pubblici che, ai vari livelli,
assumono costantemente un tale comportamento? Quanti
sono quelli che considerano il lavoro un semplice mezzo di
sopravvivenza, ignorando l'alta funzione che esso ha nel
creare sviluppo e nel contribuire al benessere di tutti?
Quanti sono quelli
che, svolgendo una attività a servizio di un Ente
pubblico, hanno piena consapevolezza dei loro doveri
civili e morali di soddisfare le richieste dei
clienti-utenti?
Denis Mack Smith in "Storia della Sicilia medievale e
moderna", Editori Laterza, Bari 1971, ha scritto:
"Il tentativo fatto nel 1938-9 di far lavorare i
funzionari un numero fisso di ore senza interruzione per
il caffè e senza un intervallo abbastanza lungo da
consentire il pranzo in famiglia, il tentativo di far
portare l'uniforme a semplici impiegati e maestri di
scuola, la progressiva interferenza nella vita di tutti
i giorni nel modo di vestire, di parlare, di gestire e
di comportarsi, tutto ciò, oltre a essere impossibile a
imporsi, era fastidioso."
Il termine ‘ntrizzari,
corrisponde a
intrecciare,
che nell’enciclopedia italiana Treccani, viene assegnato
il significato di: “Unire a treccia, torcere insieme
fili o altri elementi flessibili formando una treccia:
i. i capelli, i trefoli di un cavo; i. steli, giunchi,
paglia; i. un cordoncino a (o con) un nastro. Con
significato più generico, intessere, disporre come si fa
intessendo: i. i fiori; i. una ghirlanda; i. le dita. In
usi fig., comporre con arte e ordinatamente: i. le fila
di un racconto, di un’azione drammatica; i. le danze, di
più persone che ballino. Più comunemente, iniziare,
allacciare, stringere: i. una relazione (amorosa o
d’altra natura); i. rapporti di amicizia”.
L'intreccio può
considerarsi tra le più antiche arti esercitate
dall'uomo, che trasforma le fibre in manufatti di uso
quotidiano. Nella pratica dell'intreccio lo strumento
principale è il corpo, vengono utilizzate le braccia, il
cinto, le dita, il palmo delle mani e persino il capo e
i piedi.
I manufatti erano essenzialmente realizzati per tre
distinte funzioni: quelle del conservare, contenere,
trasportare e sostenere.
Al termine
'ntrizzari fanno riferimento diversi
antichi mestieri, quali: cannistraru, ‘ntrizzaturi,
cufinaru, cannizzaru, cuffaru, curdaru, fasciddaru, ‘mpagnaturi. Tutti mestieri riconducibili
ad una serie di manufatti le cui funzioni erano
essenzialmente pratiche e di uso quotidiano. E come
scrive Nello Blancato nel suo blog: “Essi stessi anzi,
come prodotti e risultati di tecniche diverse,
costituivano quella che si dice la cultura materiale
propria della nostra società. Di certo non esistono
popoli che non posseggano una qualche tecnica, anche
rudimentale, per l'intreccio di canestri e cestini che,
sicuramente, sono stati tra i primi contenitori usati
dall'uomo fin dai primordi. L'intreccio per scopi
pratici o ornamentali, dunque, è tra le più antiche arti
popolari praticate dall'uomo; storicamente anticipa la
produzione della ceramica e dà il via alla tecnica della
tessitura.
Il giunco, la palma nana, la palma da datteri, la liama
(ampelodesmo), la canna, i virgulti d'ulivo, l'agave, il
salice, la rafia, i culmi delle spighe, ecc., tutte
queste fibre, tenere e flessibili, vengono utilizzate
ancora oggi nella tradizione contadina e pastorale (e in
qualche caso anche nel campo artigianale), per
l'intreccio di oggetti di utilità pratica o con valenza
apotropaica.
A parte la cultura dell'autosufficienza presente in
tutte la civiltà agropastorali, una volta erano parecchi
i contadini che, nei periodi morti della stagione
agricola, diventavano artigiani a tempo e dell'intreccio
ne facevano quasi un mestiere. Oggi sono rimasti in
pochissimi ad avere questa passione e a fare questo tipo
lavoro e la loro opera si limita quasi esclusivamente al
fabbisogno personale o a qualche modesta fornitura per
terzi."
Alcuni di tali lavori venivano eseguiti nelle ore serali
o nelle giornate piovose, quando risultava impossibile
andare in campagna. E allora, attorno ad una conca,
ripiena di carbonella accesa, si sedevano granni e
picciriddi per vedere come l’esperto di famiglia
procedeva alla realizzazione di alcuni manufatti, che
aveva anche il compito di trasmettere le proprie
conoscenze tecniche.
Nello stesso tempo il nonno o lo zio di turno raccontava
avvenimenti di vita vissuta, storie di mera
immaginazione, miniminagghi (indovinelli), antichi
proverbi, ma quello che era più importante inculcavano
sani principi di educazione, di rispetto e di saggezza. L’argomento
che attirava la maggiore attenzione era certamente
quello che riguardava le storie vissute durante le
guerre. E allora fioccavano le domande sulla eventuale
uccisione di nemici. Le risposte erano sempre evasive.
A proposito di intrecciare, si ricorda, tra storia e
leggenda, la tessitura della tela di Penelope, moglie di
Ulisse.
La tessitura della tela fu un celebre stratagemma,
narrato nell'Odissea, ideato da Penelope, per non
addivenire a nuove nozze, stante la prolungata assenza
da Itaca del marito. Penelope aveva subordinato la
scelta del pretendente all'ultimazione di quello che
sarebbe dovuto essere il lenzuolo funebre del suocero
Laerte. Per impedire che ciò accadesse, la notte
disfaceva la tela che aveva tessuto durante il giorno.
Una leggenda cristiana molto simile a quella di Penelope
la ritroviamo in Sicilia,
e che fa riferimento a
Sant’Agata.
A pag. 237 del libro “Fiabe e leggende popolari
siciliane” (1888), di Giuseppe Pitrè (il più grande
studioso di tradizioni popolari siciliane), troviamo:
“La Limpia di Sant'Agàti” (Il velo di
Sant’Agata).
“Sant'Agàti avia fattu vutu di virginità, e sò patri
la vulìa maritari pi forza. 'Na vota idda pi livarisìllu
di 'n coddu cci dissi: —“Ora tannu io mi maritu, quannu
finisciu di tessiri sta pezza di tila”. Lu patri cci
critti.
Ora idda chi facia? Lu jornu travagghiava a tessiri, e
la notti poi scusia tuttu chiddu ch'avia travagghiatu.
Lo jornu ammugghiava, e la notti scusìa; sbrugghiava
e jinchia lu sùgghiu (grosso cilindro di legno usato
dai tessitori per avvolgervi di mano in mano la tela
tessuta).
E pi chistu quannu cc' è 'na cosa ch' 'un si finisci
mai si soli diri la limpia di Sant'Agàti.”
Nel volume "Spettacoli e Feste" dello stesso Giuseppe Pitrè, pag. 194, troviamo:
“Secondo la tradizione orale S. Agata sarebbe stata una tessitrice di straordinaria bellezza. Un tale se ne sarebbe innamorato e l’avrebbe chiesta in moglie a’ genitori. La vergine catanese, perché riluttante alle nozze,
l’avrebbe tenuto a bada promettendogli di sposarlo sì tosto che avesse finito di tessere una tela che avea per le mani. La condizione parve plausibilissima e perciò fu accettata. Ma la ragazza, che di giorno tesseva,
la notte disfaceva; e così potè liberarsi del molesto ed odioso uomo. Di qui la frase popolare che si ripete a proposito di cosa che non si finisce mai: Essiri come la limpia di S. Aita... Evidentemente qui la storia di
Penelope è stata cristianizzata e santificata. Più tardi Agata destò le insane voglie d’un re pagano, e perché recisamente rifiutorsi le furono asportate le mammelle. Per questi due fatti ella fu tolta
(elevata) a lor protettrice
dalle tessitrici, a loro medichessa dalle donne cui si ammalavano le poppe. Le une e le altre hanno preghiere per lei, e mentre le prime riconoscono a S. Agata ogni fortuna, le seconde le offrono mammelle di cera a guarigione ottenuta…"
(Secondo alcune interpretazioni, il
pretendente sarebbe stato il
proconsole Quinziano, il vero responsabile dei martiri
subiti da Sant'agata, fino alla sua morte).
Della superiore leggenda non
risulta esserci alcun cenno nei numerosi Acta sulla vita
di Sant'Agata.
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