Per
l'elaborazione delle relative sezioni sono stati
visionati diversi siti internet e bibliografie
varie, nonché interviste a vecchi carrettieri,
pupari, collezionisti, cultori e appassionati d'ogni
genere, a tutti un sentito ringraziamento. Il lavoro
resta aperto ad ogni possibile precisazione e
integrazione che l'utenza vorrà segnalare. |
Il carro
Il carro è un veicolo a due o quattro ruote, dedicato al trasporto
di merci o persone, generalmente a trazione animale. Quello a
quattro ruote, in uso dall'età del bronzo, (3500 a.C. al 1200 a.C.)
è stato per oltre due millenni privo di apparato sterzante, per
cui veniva utilizzato solo in percorsi alquanto rettilinei. In
generale, si può dire che il carro a due ruote è destinato alla
trazione equina ed è più veloce, quello a quattro ruote è a
trazione bovina ed è più lenta, ma capace di trasportare pesi
maggiori. Tra il 2000 e il 1500 a.C. appaiono le prime ruote a raggi, mentre
la struttura del carro diventò più leggera e funzionale. A Roma il
carro fu introdotto dagli Etruschi, ma si diffuse soprattutto nei
periodi repubblicano e imperiale. I carri sin dall’antichità
sono stati decorati in ogni loro parte.
Per la maggior parte della propria storia il carro è stato mezzo
agricolo e stradale, che progredendo soppiantò carrozze, lettighe
e portantine anche per il trasporto delle persone. Con l’evolversi dei sistemi di comunicazioni stradali e
ferroviarie, il carro agricolo assume aspetti caratteristici e
peculiari, divenendo oggetto emblematico delle diverse tradizioni
locali. Infatti, i carri da trasporto nelle diverse regioni, rappresentano
elementi tipici del folclore e spesso sono tra
le cose migliori dell’arte popolare.
Il carretto in Sicilia
Il carretto siciliano è un veicolo a due ruote senza molle,
destinato al trasporto di carichi di modesto peso e trainato
da un solo animale (equino) al quale viene affidata la
funzione di tiro e di sostegno con la groppa di una parte del
peso. Alcuni affermano che il carretto siciliano si è diffuso, con
le sue caratteristiche tipiche, intorno ai primi anni
dell’ottocento. La sua diffusione è connessa alla storia
economica di un’isola in cui divenne sempre più pressante la
necessità di trasportare uomini e materiali dalla città alle
campagne e viceversa e soprattutto per trasportare i prodotti
agricoli dai luoghi di produzione a quelli di distribuzione o
di consumo.
Durante la dominazione araba, la diffusione del carretto fu
ostacolata dalla realizzazione di strade, vicoli e cortili di
modeste larghezze che ne ostacolavano il passaggio. Per diversi secoli il trasporto delle merci è avvenuto a dorso
di animali da soma, su apposite mulattiere al servizio dei
grandi proprietari terrieri. Ma anche su carri senza ruote,
come per esempio lo "stràscinu" o
stràula, che era una specie
di slitta.
Le poche strade realizzate erano dei veri sentieri a fondo
naturale, con ripide salite e curve a gomito, fortemente
accidentate, con numerosi dossi e fosse, da limitare l’uso del
carretto, anche se appositamente realizzato con ruote molto
alte. Solo dopo il 1840 il governo borbonico elaborò un programma di
viabilità regionale, grazie alle nuove tecniche di costruzione
di Mac Adam, la cui realizzazione fu molto lenta e ricca di
ostacoli, basti pensare che nemmeno sul Simeto c’era un ponte
e i muli e i bagagli dovevano attraversare il fiume su
zattere. Ciò nonostante, in quegli anni l’economia isolana
ebbe un notevole impulso, grazie alla soppressione dei dazi
sulle esportazioni e all’aumento di quelli sulle importazioni,
dando vita a nuove attività artigianali e artistici (tra i
quali la pitturazione dei carretti e l’opera dei pupi).
Anche dopo l’Unità d’Italia, la costruzione delle strade fu
piuttosto lenta, anche perché le autorità locali che erano
sotto l’influenza dei proprietari terrieri, non fecero nulla
per recuperare le “regie" trazzere (strade a fondo naturale
della larghezza di m.37,68, destinati prevalentemente alla
transumanza degli animali da pascolo), che nel tempo sono state
illegalmente privatizzate per circa un terzo.
In un tale contesto, furono costruite, piuttosto lentamente,
delle strade di sufficiente ampiezza, che facilitarono la
diffusione del carretto.
Il Senatore Domenico Bonaccorsi di Casalotto, principe di
Reburdone, Presidente dell’Amministrazione provinciale di
Catania dal 1872 al 1895, il 19/12/1886 inaugurò il primo
ponte in ferro sul fiume Simeto, in corrispondenza della
contrada “Primosole”. Fino ad allora i carrettieri e i
viaggiatori attraversavano il fiume a guado, con carri o
cavalcature, o su delle chiatte (giarrette).
Con l’evolversi del sistema viario, i collegamenti commerciali
tra le città e le campagne passarono nelle mani dei
carrettieri, ponendo fine all’attività dei vurdunara
(trasportatori a dosso di animali). Il carretto nato come mezzo di trasporto, ben presto diventa
un “veicolo di trasmissione culturale” per i siciliani, perché
in esso, tramite la scultura e la pittura vengono
rappresentati momenti della storia siciliana, epica, ed altro
ancora.
Il carretto ha avuto una forte influenza sui livelli sociali:
chi lo possedeva aveva un bene e il suo stato sociale era
superiore a quello di un “iurnataru” che invece non
poteva averlo. Le persone meno ricche proprietari di carretti
si limitavano a qualche decorazione per il semplice motivo di
preservare il legno dall’azione corrosiva degli agenti
atmosferici e dei tarli; mentre i più facoltosi affidavano il
proprio carretto a dei veri e propri pittori e scultori per
curare al meglio l’aspetto esteriore del mezzo.
Va ricordato che i carrettieri erano del tutto analfabeti o
avevano frequentato solo le prime classi elementari, poiché
avevano incominciato a lavorare fin da piccoli. Essi
svolgevano il lavoro per conto di commercianti o costruttori e
solo raramente lavoravano in proprio; la forma di pagamento
era “a viaggiu” ed era correlato al tipo di tragitto da
percorrere. Meno frequente ma più conveniente per i
carrettieri, era il pagamento “a iurnata”. Quando si incominciarono ad asfaltare le strade e a diffondere
i mezzi meccanici, i carrettieri diventano camionisti o
conduttori di motofurgoni, trasferendo sui nuovi mezzi il
repertorio pittorico dei carretti.
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Struttura del
carretto.
Il
carretto è composto da quattro parti
principali: le ruote, la cassa (parte
contenitiva), le stanghe e il gruppo
portante centrale detta cascia di fusu.
La parte centrale della ruota è costituita da un pezzo cilindrico
in legno detto mozzo ('u miòlu), dello spesso di cm 27 e
diametro di cm.22, dotato di 12 fori per
l’innesto dei raggi chiamati iammuzzi (jammi = gambe), spesso
arricchiti da intagli a fitte sezioni parallele (impòsti) o
addirittura soggetti scolpiti quali fiori, aquile, sirene, o teste
di paladino. Nella parte interna del mozzo viene incastrata la
boccola, cioè un tubo in bronzo (a viscida o usciula), a
sezione conica, per l’inserimento sull’asse in ferro (fusu)
del carretto. La corona o parte esterna della ruota è composta da
6 pezzi curvilinee (cuvvi), che costituiscono la circonferenza
della ruota, tenuti insieme dal cerchione in ferro, 'u circuni.
Il mozzo è bloccato al
fusu, per mezzo di un dado a vite detto rannula. 'U
fusu è dotato di due rondelle grossolane che permettono alla
ruota un certo gioco, con emissione di un rumore caratteristico (('u
toccu o lu tonu giustu), senza il quale il carretto non ha
alcun valore.
Il diametro medio delle ruote è di m. 1,40.
Le stanghe (asti),
della lunghezza di m.3,70, sono a sezione rettangolare nella parte
posteriore e centrale, ed ellittica nella parte anteriore, il cui
terminale porta un anello in ferro (ucchiali o occhiu d'asta)
per l’aggancio al basto. Fra le aste e sotto 'i tavulazzi sono montate due parti in legno chiamate
'i
chiavi, una anteriore ed una posteriore. La prima è una
semplice barra ricurva verso il basso, la seconda di forma
rettangolare consiste in un bassorilievo intagliato rappresentante
una scena, solitamente cavalleresca, che può assumere diversi
gradi di pregevolezza. Spesso nella chiavi posteriore si riportano
i nomi dell’artigiano carradore e di chi ne ha commissionato la
realizzazione.
Nella parte terminale del carretto troviamo 'a chiavi di ferru,
che sorregge le aste.
Nella cassa (càscia di carrettu), distinguiamo: 'u
funnu di càscia, cioè il pianale di carico prolungato
anteriormente e posteriormente da due tavole trasversali ('u
tavulazzu d’avanti e 'u tavulazzu d’arreri); le due sponde
fisse del carretto ('i masciddàra, dal siciliano mascidda = mascella), e un portello posteriore removibile ('u
puttèddu) per agevolare le operazioni di carico e scarico.
Ogni masciddàru è suddiviso equamente in due scacchi
(i riquadri in cui vengono dipinte le scene); nel puttèddu
invece vi è uno scacco centrale e due laterali più piccoli. Gli
scacchi sono divisi da segmenti verticali che congiungono i
pannelli al funnu di cascia: 6 pioli in legno chiamati barrùni equamente divisi fra
masciddàri e puttèddu. Sulla parte centrale del
masciddàru è presente
'u cintùni, staffone in metallo.
I
barrùni spesso sono intagliati e presentano in alto
'a tistuzza, testa di paladino o di popolano, rinforzati nella
parte basale con un angolino in ferro (caccagneddu). La càscia di carrettu è sostenuta dai
chiumazzeddi, tre
robusti cuscinetti in legno, assi a sezione quadrata,
opportunamente forate nelle parti terminali per l'incastro del
piolo (ammicciatina do barruni e chiumazzeddu).
L'ancoraggio dei chiumazzeddi alle aste è affidata a delle
staffe in ferro (iaffuneddi).
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La
càscia ha una larghezza di cm. 103-105 e una profondità
di cm. 125-128, a cui vanno aggiunti cm. 20-22 per ciascun tavulazzu.
La
cascia di fusu è costituita: da un asse in ferro
omogeneo, filettato ai due estremi; da una parte in legno
intagliato sormontata da un arabesco di ferro e da due mensole (mensuli)
che congiungono il fusu con la cascia. Nei carretti
patrunàli meno pregiati, la preziosa cascia di fusu
viene sostituita dalle balestre. Tra le aste, e sotto la cassa, appena dietro la
chiavi d’avanti,
spesso è montata una rete in corda ('u rituni) per
contenere a vacila (bacile per l’abbeveraggio
dell’animale), 'a sacchina (sacca di tela) e
'a
coffa (cesta realizzata con foglie di palma nana intrecciate), ove si
mette la biada per l’alimentazione dell’animale.
Infine, possiamo trovare la barra di
frenu, posta sotto il
funnu di cascia e all’interno della ruota, che viene
azionata dal carrettiere mediante un meccanismo a vite.
A corredo del carretto troviamo l’ombrellone, che viene sorretto
da una scultura in legno ('a ballarina o San Giorgio
Cavaliere) ancorata al fusu.
Materiali e attrezzi
Le parti che compongono il carretto siciliano vengono lavorate,
perfezionate e assemblate in modo esclusivamente artigianale, e
possono essere ricavate dai seguenti tipi di legno: - noce: per la corona
e il mozzo della ruota, le sponde ed i
travetti; - frassino: per i pioli (barruni); - faggio: per le mensole e le stanche
(asti);
- abete: per tutto il resto. Gli attrezzi utilizzati, spesso di tipo artigianale, sono oltre
100: scappelli, mezze lime, raspe, lime, martelli, trapani,
chiodi schiacciati, tornio, serra a nastro, pialla, serra a
manico, stringenti, tenaglie, pinze, bulino (punteruolo), rincigghiu, ascia, compassi, cogna, sgorbia,
chianozzu,
paletta, pialletta, ecc.
Stili del carretto
Il carretto assume caratteristiche diverse a seconda della zona in
cui viene prodotto. Nel palermitano il carretto presenta sponde
trapezoidali, una tinta di fondo gialla e decorazioni
prevalentemente geometriche. I temi rappresentati sugli scacchi
variano tra cavalleresco e religioso, prevalgono le tonalità
rosse, gialle, verdi e blu, le sfumature sono ridotte
all'essenziale e la prospettiva è bidimensionale. Spesso nel
palermitano le balestre sono preferite alla cascia di fusu,
intagli e pitture mantengono l'aspetto naif tipico del carretto
siciliano.
Nel catanese, il carretto è più piccolo, le sponde sono
rettangolari, la tinta di fondo rossa, gli intagli e le
decorazioni si presentano più ricercati e meglio rifiniti,
allontanandosi dallo stile semplice del palermitano per ottenere
una raffinatezza maggiore. Ad esempio, l’arabesco della Cascia
di fusu nel palermitano si compone da una sorta di uncini,
mentre nel catanese con il ferro vengono rappresentati pupi,
draghi, sirene e paesaggi reali o astratti (suspiri).
Nelle produzioni più moderne i quadri contemplano la
tridimenzionalità prospettica, la gamma di tonalità si
arricchisce, le sfumature e i chiaroscuri si fanno più incisivi. Meno conosciuto è lo stile ragusano (Val di Noto), in cui il
carretto presenta una struttura simile al catanese, ma si mira
all’essenziale e nelle tonalità si distingue per la sua
caratteristica gradazione scura.
Le maestranze del carretto
Alla realizzazione del carretto siciliano partecipano diversi
artigiani, ciascuno col proprio mestiere.
La prima fase è competenza del
carradore, colui che
costruisce il carretto e ne intaglia i fregi (u carruzzeri).
Altro compito importante del carradore è la ferratura a fuoco
della ruota, pratica particolarmente pittoresca.
La seconda fase è affidata al
fabbroferraio ('u firraru), che forgia le parti
metalliche quali i cintuni, le estremità delle aste
("occhiali", cioè gli anelli che servono per attaccare il cavallo
alle aste) e il pregiato arabesco della cascia di fusu. Lo
scultore si occupa delle parti in legno, il fabbro di quella in
ferro, il carradore mette insieme le due parti e il pittore
(figurinista) dà un tocco di vivacità al tutto.
I due pezzi di un carretto che testimoniano l’arte di uno scultore
sono: “a chiavi” e “a cascia di fusu”; queste sono
le parti più lavorate sia per quanto riguarda il legno, (chiavi
e cascia di fusu ) sia per quanto riguarda il ferro (cascia
di fusu). “ A chiavi”, soprattutto, è quel pezzo di
legno che permette allo scultore di sbizzarrirsi come meglio
crede, senza crearsi problemi di solidità del pezzo in quanto ha
uno scopo esclusivamente decorativo. Inizialmente presero il
sopravvento le scene religiose, ma in seguito gli scultori
s’ispirarono anche alla mitologia classica e a scene
epico-cavalleresche.
Il
fonditore ('u ramaturi) prepara le boccole,
'i
vìsciuli, che sono due scatole metalliche a forma di tronco di
cono, che vanno incastrate nei mozzi delle ruote, realizzate con
una lega speciale, composta da 78 parti di rame e 22 di stagno.
Quando la costruzione del carretto è ultimata il lavoro passa al
decoratore e al pittore, che vestono il carretto di colore e
vivacità. Il primo decora con motivi geometrici le superfici della
cassa e dei davanzali, il secondo procede prima alla "in doratura"
cioè il carretto è trattato con due o tre mani di colore e poi
dipinge le fiancate, rappresentanti le gesta cavalleresche,
mitologiche, storiche o romanzesche che caratterizzano il carretto
siciliano.
I carretti interi, cercati in aperta campagna e sapientemente
restaurati, trovano la propria collocazione ideale assieme a
decine di altri pezzi (fiancate, casce, fusi, chiavi…)
ripescate da chissà dove, o create di sana pianta. E sono
autentici trionfi di colore, i carretti ancor oggi creati nelle
nostre poche e gloriose botteghe, dove la tradizione resiste, con
una tenacia tutta etnea. Figure come quella di Domenico Di Mauro e
di Nerina Chiarenza (figlia di Sebastiano) sono ormai circondate
da un’aura quasi leggendaria: depositari di un’arte che va
scomparendo, tramandando gesti e conoscenze che non si spiegano a
parole.
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Pittura del carretto
Fino alla fine del Settecento nel dipingere il carro non si andava
oltre una sola mano di colore (blu, grigio, giallo),
perché ci si rendeva conto che era necessario proteggerlo dal sole
e dalla pioggia sia durante i viaggi, sia quando veniva lasciato
fermo fuori casa.
Poi così come racconta l’etnologo Giuseppe Pitrè qualcosa cambiò:
“I carretti, sopra un fondo generale di color giallo nei quattro
scompartimenti delle due fiancate, portavano rozzi disegni di
santi, di teste e di cesti con fiori e frutta in colore rosso e di
fette di mellone.” Insomma, all’inizio il famoso carretto ha poco
più di qualche ingenuo fregio. Poi arrivò il marketing. E così i
caramellai, gelatieri, arrotini, bibitari e ambulanti in genere
pensarono bene di attirare l’attenzione di bimbi e clienti con
pitture sempre più elaborate e appariscenti: tutte da ammirare e
invidiare. L’elemento scaramantico poi, conquistò presto il trono:
a San Giorgio che uccide il drago il posto d’onore, il pizzu,
ossia il centro del travetto steso sull’asse delle ruote, non tralasciando di assicurarsi lo sguardo
benevolo dal Paradiso e scongiurare il malocchio degli iettatori.
Nessuno degli artisti del pennello restò estraneo al grande
movimento di elaborazione iconografica che iniziò a prendere corpo
trasformandosi nel giro di poche generazioni in un grande
fenomeno di costume: dal pittore di cartelli per i pupari,
con il suo folto corteo dei vari Orlando, Carlo Magno, Rinaldo, ai
pincisanti e pittori di ex voto che rubarono al repertorio
religioso spunti e idee da trasportare sul legno, dando origine a
delle vere e proprie correnti artistiche, con i carretti a catanisa, a sant’antunisa, a bruntisa.
Nel volgere di pochi lustri ogni risvolto, anche il più inatteso,
dell’immaginario collettivo venne metabolizzato e reinterpretato
secondo il gusto del maestro: episodi della conquista normanna,
crociate, rivolta dei vespri, sbarchi garibaldini e guerre
d’oltremare, il dramma della gelosia della Cavalleria rusticana,
narrazioni epiche, leggende. Cosicché, a tenere compagnia ai
carrettieri durante il viaggio c’erano storie d’amore e duelli
sanguinosi, le prodezze dei Mille e quelle dei Paladini, lotte
contadine e passioni da melodramma, santi e faraglioni, frutta e
angioletti e anche fatti di cronaca.
I colori adoperati erano quelli primari (il giallo, il rosso, il
verde, l’arancione, l’oro e l’argento) e le scene, nel migliore
dei casi, sembravano uscire dal legno per essere rivissute come in
un piccolo teatrino. Nelle sponde, nelle ruote, nella cassa vi
erano i colori del sole siciliano, dello zolfo, delle arance e dei
limoni, del cielo e del mare, della lava dell'Etna e dei
ficodindia.
Così il carretto rappresentava una sintesi delle civiltà
mediterranee che furono presenti nell'isola: i colori arabi, gli
arabeschi turco-bizantini, i costumi dei Greci, le cianciane
spagnole.
Si realizzarono così delle autentiche opere d’arte, chiamando a
raccolta maestri ebanisti, abili ferrai ed eccellenti pittori, per
coniugare amabilmente arabeschi in legno e rilievi in ferro
battuto, lasciando il tocco finale a una moltitudine di ricami,
ninnoli, pennacchi di lunghe bellissime piume colorate.
I carretti e i cavalli, in poco tempo, diventarono i mezzi
attraverso i quali i carrettieri potevano affermare le loro
identità e volontà di potenza.
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Bardature e paramenti
Quando si guarda un carretto siciliano in
parata, le parti che saltano subito
all’occhio sono i pennacchi che unitamente
agli altri ornamenti fanno capire che
trattasi di armiggi “da festa”,
certamente molto più ricchi e vistosi di
quelli “giornalieri”.
La realizzazione di “l’armiggi“ (bardature e pennacchi)
è opera di grandi maestri: u siddunaru prepara il basto
(sidduni) e i pennacchi, u guarnamintaru o
varnamintaru prepara
tutti gli altri ornamenti (pettorale, testiera, cavezzone,
sottopancia, groppiera).
Gli “armiggi da festa” sono un vero spettacolo, un
arcobaleno di colori: nastri, fiocchetti e frange di lana o di
seta, piccoli specchi, stelline in oro e argento, chiodi di
rame rosso o bianco, a testa rotonda o quadrata; campanacci e
cianciane argentati o dorati; cinghie, pettorali e
finimenti speciali. Sui paraocchi ci sono i personaggi
principali rappresentati sulle sponde, personaggi diversi o
una doppia rappresentazione del Santo protettore del
carrettiere. Tutta la bardatura (insieme di attrezzi e cinghie per
l'attacco del cavallo al carretto) è coronata da due
pennacchi, uno sulla testiera e uno sul basto: un vivace
mescolarsi di piume colorate di fagiano, cappone, oca,
pavone.
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I maestri dei carretti
Tra i costruttori di
carretti (carradori) si ricordano:
- in Catania: Giovanni Faro e i suoi tre discepoli - Nino Leo (detto
Badda, intorno al 1875 costruì un carretto,
servito da
modello definitivo) e Francesco e Salvatore Albanese - Puddu
Leotta (U lupu), il palermitano Giuseppe
Gerardi (Piddu ‘u Palermitànu), Antonio
Nicolosi (morto intorno al 1920), Orazio Nicosia (detto Aràzziu
carrapipi, morto intorno al 1956), Turi
Quartarone (1878?-1964?) e il suo allievo
Salvatore Musso, Ciccino Politano (1901-1987),
Rosario Buccheri, Salvatore e Concetto Santapaola; a
Ognina Concetto Cappadonna;
- in Belpasso: Orazio Galvagna e Domenico Morabito;
- in Aci Sant’Antonio: Gaetano Bottino, i Fratelli Michele e Salvatore
D’Agata, Alfio Ferrara, Settimo D'Agata, Rosario Torrisi,
Salvatore Chiarenza, Sebastiano Chiarenza (padre di
Nerina);
- in Paternò: i fratelli Astuti Simone (don Simone, 1896-1967),
Francesco e Liberto (1898-1945), Concetto Messina (1871-1954), Salvatore Distefano, Francesco
Nicolosi, Turi Bellissimo, don Carmelo Brasile (testa
di tumminu, 1896-?), Salvatore Cosentino, Turi Ciancitto (baccalaru,
1890-1978), Pippo Fallica, Ciccio Aiello, Virgillito
(tramola);
- in Viagrande Ninu Campanile, Alfio Occhidicrasto;
- ed ancora Don Paolino di Giarre; Luigi Mossuto (mussutu) di
Grammichele; in Adrano Rosario Cùscani; in Scordia
Giuseppe Valenti e i fratelli Mario e Gaetano
Mangano; in Vizzini Salvatore Migliore e Raffaele
Vaccaro; Nicolosi Salvatore.
Tra gli scultori-intagliatori si
ricordano: Ignazio Russo ('u Palicchiu), intagliatore
di assoluta bravura, Antonio e Alfio Ferrara, Vito Giuffrida, Antonino Di Mauro
(soprannominato Campanile) di Viagrande, Francesco
D'Amico, Domenico Di Mauro (omonimo e cugino del
noto maestro pittore), Turi Chiarenza (fratello di
Nerina), Vincenzo Di Giovanni, Salvatore Murabito,
Gaetano Nicolosi.
Oggi si possono ricordare: Alfio Pulvirenti e il suo
allievo Carmelo Carciotto di Belpasso, gli scultori
Sarino D’Agata, Lorenzo Salamone, Biagio Foti, ….
Tra i fabbri carradori (firràri) vanno
ricordati: Vincenzo Sciacca, i fratelli Pasquale e Angelo D’Amico,
Giovanni D’Emanuele (Bafàcchia), don Salvatore
Esposito, detto "peri chiatti", i
fratelli Concetto e
Vincenzo Santapaola, Lorenzo D'Amico e Giuseppe
Russo; Giuseppe D'Agata, Ignazio
Sapienza, Vito e Salvatore Bella, Salvatore Guerrera,
a Viagrande, Ninu Campanile; Alfio
Rapisarda (pilu russu) e il figlio Paolo (Paulicchiu)
ad Aci Sant'Antonio; Sebastiano Russo (frasciàmi)
di Paternò; Giuseppe Parisi a Scordia.
Per la pittura dei carretti si
ricordano: Salvatore Lombardo di Scordia; Carmeni Antonino di Belpasso; Saro
Vittorio (1882-1962) e il suo allievo Antonino
Leotta (1893-1956) e il genero Giuseppe Soldano,
Vincenzo Ciaramella (1917-?), Alfio Virgillito
(1920-1983), Vincenzo Anicito (1923, Nzuddu
Anicitu), in Paternò; Vito Giuffrida (Don
Zuddu u Pintu), Carmelo Chines (u cuttu)
e figli Giuseppe e Rosario, Francesco Fisichella, di
Catania; Vincenzo Zappalà, Gaspare Zappalà, Giuseppe
Maugeri, che fu anche maestro di Giuseppe Zappalà (Pippinu
“u surdu”), nella cui bottega si formarono il
figlio Antonio
(‘Ntoni) e, qualche decennio prima, Domenico
Di Mauro (1912, “Minicu u pitturi”), Micio
Puglisi, Nerina Chiarenza, in Aci Sant'Antonio. A Viagrande lavora Mauro
Giuffrida detto perivancu. Infine, Giovanni
Mascali, ("Giuvanni u pintu", allievo di
Francesco Distefano), un altro colosso della pittura
di scuola catanese, ricordato tra i più bravi da
Domenico Di Mauro.
Sulla scia dei maestri, oggi troviamo Alice Valenti,
Salvo Sapienza, Damiano Rotella di Riposto, Maria
Pia Cristaldi, Maria Luisa Ferraro, Salvo Nicolosi,
Gaetano Di Guardo ….
Tra i maestri artigiani di armiggi,
bardature, selle e finimenti artistici si
ricordano: Giuseppe Blandini,
Mario Giuffrida, Giovanni Guglielmino e il figlio
Rosario, Sebastiano Truscello, Orazio Nicotra,
Sebastiano e Salvatore Pastura, i due Saro Grasso
(nonno e nipote), Gaetano Basile, Orazio Zito,
Serafino Sciuto, Giovanni Mascali, Pippino Grasso (siddunaru),
Orazio Galvagno, Pietro La Farina, Pietro Longo,
Sebastiano Pedicone (già pittore di carretti,
allievo di Giovanni Mascali), Raimondo Ferlito, Don
Gaetano Napoli, Carmelo Puleo di Belpasso; Giuseppe
e Nino Soldano; Eugenio Tomasello, Alfio Villano (1900-1989), Giovanni Sorbello (1927-1987) e il suo allievo Pippino
Mazzamuto (1922-1998?), per la scocca (struttura
portante), in Paternò.
Oggi per i finimenti troviamo: Franco Giustolisi
(nipote di Politano), in Lineri, Selleria Orazio
Foti, in Via Fratelli D'Antoni n.23, Catania.
Per ulteriori notizie vedi
"Elenco degli artigiani costruttori dei carretti
siciliani che hanno operato in provincia di
Catania".
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Il carretto ai giorni nostri
Con l’avvento dei mezzi di trasporto motorizzati (lambrette,
furgoncini e camions) i carretti perdono la loro importanza,
divenendo pezzi di antiquariato come dice il poeta favarese
Giuseppe Casà in “U carrettu”: “Ora cangiaru i tempi e lu
carrettu /resta a l’agnuni e si fa mpurrìri, /pari carogna
mmezzu a li liùna, / ca un serbi a nenti e nuddu lu talìa,”
Quando il carretto perde la sua funzione di mezzo di
trasporto, i pittori trasferiscono le loro capacità decorative
alla motoape (lapa), vespa, fiat 500. E quando queste
spariscono dalle strade, si va a ricercare altrove il modo di
mantenere in vita una così radicata tradizione artistica.
Le motivazioni, che spinsero a creare il “carretto siciliano”
sono ancora vive in una parte della popolazione, perché esso
fa parte della identità isolana. Il carretto siciliano è
quindi associabile nell'immaginario collettivo alla Sicilia
perché non ne esprime solamente un elemento di folklore, ma ne
esemplifica un carattere. La
committenza è cambiata. Nel parco clienti figurano architetti
e acquirenti stranieri, musei ed enti locali.
Al carretto
siciliano è toccato reinventarsi in mille modi (le ruote hanno
scoperto l’elettricità lasciandosi appendere a mo’ di
lampadario; i pannelli hanno imparato a competere con quadri e
arazzi sulle pareti di alberghi e residenze private, e le aste
sono finite per farsi contendere come pezzi da collezione).
Qualche sponda adorna i salotti o le bancarelle delle feste. Il
carretto siciliano, dunque, è semplicemente relegato ad una
funzione decorativa. Ma la storia continua, vivissima, allegra e
luminosa, come gli innumerevoli paesaggi dell'Etna. |
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Oggi la costruzione dei carretti e l'esecuzione dei caratteristici
dipinti è continuata con passione solo da pochi maestri, che hanno
deciso di trasmettere alle future generazioni l'arte di costruire
i carretti, insegnando in alcune scuole per far sì che questa
forma d'arte non muoia con loro.
Ogni esemplare è unico nel suo genere e testimonia la passione
dell'artista che, pur rimanendo spesso anonimo, esprime lo spirito
creativo di tutto un popolo.
Oggi il carretto è quasi scomparso, ma resta pressoché intatto
tutto il fascino che riesce ad esercitare in chi ha la fortuna di
poterne ammirare i dettagli, rappresentando l'oggetto più
conosciuto e significativo dell'arte popolare siciliana.
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Sportello posteriore
(puttèddu)
Sponda fissa (masciddaru)
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Decorazione di riquadro (scaccu) delle sponde (masciddaru) |
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