Furono
cuciti vestiti, mantelli e gonnelline con stoffe sempre
più belle e preziose. In
Sicilia, il teatro delle marionette assume una caratterizzazione
unica, sia per i contenuti sia per la tecnica, che prende il nome di
“l'opra dei pupi”.
Il repertorio, generalmente in dialetto siciliano, si rifà
prevalentemente alle vicende di Orlando e dei paladini di Francia.
I pupi sono espressione “splendente” di
quello spirito epico, eroico e cavalleresco, che dalla
Chanson de geste medievale ai grandi poemi del
Boiardo e dell’Ariosto, a tutta una tradizione
letteraria, musicale, figurativa, e in particolare
teatral popolare, segna lo sviluppo di un’educazione
sentimentale e di una visione etica e poetica del mondo.
I pupi ci aiutano a capire il Gran Teatro del Mondo,
dove fin dalla nascita si è “agiti”, giusta l’idea
pirandelliana secondo la quale “siamo tutti pupi”
(marionette, burattini, maschere, ombre).
Per secoli i pupi siciliani, abilmente animati da generazioni di pupari, hanno costituito l'unica fonte di istruzione e una
delle poche occasioni di svago e di divertimento per le classi più
umili, per il popolo poco istruito (analfabeta), in seguito apprezzate
anche dalla borghesia.
Il buon puparo, per ottenere tutto ciò, deve essere in grado di
trasmettere delle emozioni attraverso il parlato ('u parrari de pupi),
la figura e i gesti del pupo, le scene di ambientazione, luci, rumori
e musiche.
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L’opera dei pupi
L'Opera dei pupi (in dialetto catanese opira dé pupi oppure
opr'e
pupi) storicamente nasce come rappresentazione degli scontri
medievali tra i Cavalieri e i Mori, nella forma in cui la conosciamo
oggi, attorno alla prima metà del 1800, quando le marionette
cavalleresche, dalle quali i pupi derivano incontrarono il favore del
pubblico e iniziarono ad interpretare i sentimenti e le aspirazioni di
giustizia di una classe sociale.
La diffusione di tale forma di espressione artistica, fu favorita
principalmente dai "Cantastorie" e dai "Cuntastorie", spesso
analfabeti. L'uno, artista-girovago, tratta il tema epico (storie e
leggende scritte) nonché scene e avvenimenti della vita quotidiana
attraverso il canto; mentre il cuntastorie con “u cuntu”
(racconto a puntate) tratta prevalentemente di argomenti epico
cavalleresco attraverso la declamazione essendo un narratore che non
utilizza alcuno strumento musicale, ma usa modulare la voce con una
tecnica tutta particolare,
assumendo appropriate posizioni del corpo (postura) e mettendo in
movimento le varie parti del corpo (piedi, gambe, braccia, testa,
occhi).
L’orbu, cantastorie – suonatore cieco, nel tempo perde sempre
più la sua importanza per i racconti, e finendo col cantare solamente
tradizionali orazioni o novene, al solo scopo di avere un minimo di
guadagno.
Nella seconda metà dell'800, i marionettisti girovaghi
rafforzano il carattere professionale del loro lavoro,
perfezionando le tecniche di espressione allo scopo di richiamare
un pubblico sempre più vasto.
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Da allora, la disponibilità degli
artigiani a realizzare un pupo più elaborato e
il confluire nell'opra della tradizione epico - cavalleresca, costituiscono i
due poli di un rilancio in maniera più articolata del fenomeno.
Nell'Opra dei Pupi si ha la
trasmissione di alti codici di comportamento
dalle antiche origini che hanno interessato il
popolo siciliano, codici come la cavalleria, il
senso dell'onore, la lotta per la giustizia e la
fede, gli intrecci amorosi e la brama di
primeggiare. La famiglia è nozione costitutiva
dell’identità dell’eroe.
L’opra porta con sé l’eterno
contrasto tra bene-logos e male-caos.
Un grande apporto allo sviluppo dell’opera dei pupi è stato dato
da Giusto Lo Dico, maestro elementare, che realizzò nel 1858
un’opera in quattro volumi del titolo Storia dei Paladini di
Francia.
L’opera, considerata ancora oggi la “Bibbia dei pupari”,
fondamentalmente è una complessa sintesi di numerosi poemi epici e
di gran parte delle storie cavalleresche che facevano parte della
tradizione orale dei cuntastorie. La “Storia”, che inizia
con la nascita e le primissime gesta di Carlo Magno e termina con
la disfatta di Roncisvalle, narra le complicate e tortuose vicende
di Orlando, Rinaldo, Angelica, Ruggiero, Gano, ecc. che
costituiscono il copione base della più nota, amata e
caratteristica rappresentazione dell'Opera dei pupi siciliani.
In particolare racconta della dolorosa sconfitta di Roncisvalle,
in cui persero la vita, vittime di un’imboscata, le più valorose
“spade” cristiane, tra cui il prode Orlando, Astolfo e il saggio
Oliviero.
Spesso la recitazione dei maestri pupari era a soggetto, seguendo
gli appunti trascritti sui canovacci (“copioni”) a supporto della
trama in rappresentazione.
Le storie e i fatti erano messe in scena in diverse serate, che in
qualche caso arrivavano ad oltre cento rappresentazioni, ciò
portava gli spettatori ad uscire dal loro guscio e a condividere
il “sogno” con gli altri.
Lo spettacolo manteneva un'alta forma popolare grazie a
particolari espressioni linguistiche che incontravano il favore
del pubblico, coinvolgendolo nelle storie narrate, portando ad una
sorta di identificazione tra spettatore ed eroe o portando alla
nascita del senso di appartenenza ad un gruppo, una sorta di
trasmissione dei saperi legata agli spettacoli ai quali si
partecipava. Il pubblico, composto in prevalenza da ragazzi e
uomini del ceto popolare, spesso interveniva non solo a parole
(invettive), ma testimoniava le proprie antipatie nei confronti di
alcuni personaggi poco graditi lanciando contro di essi oggetti
vari e, comunque, attraverso i commenti dialettali che essi davano
durante l'intervallo.
Nel breve volgere di pochi decenni l'espressione artistica
dell'opra dei pupi ha perso gran parte del suo fasto a causa della
concorrenza di altre forme culturali d'intrattenimento: dapprima
il cinema (dopo il 1940) e poi la televisione (1960), unitamente
al bum economico e ai nuovi modelli culturali e di svago
proiettati al futuro, hanno determinato una vera e propria strage
di pupari e di teatri.
Lo spettacolo (e il sogno) arrivò direttamente nelle case e il
popolo Siciliano cominciò a guardare con sospetto alle proprie
tradizioni che spesso richiamano un passato fatto di povertà. Il
grosso problema era che un’arte fatta da artisti orali e fruita da
grosse fette di analfabeti non lasciava dietro di sé molte tracce.
La catena di sapere orale e quella “corporativa” del tramandare al
figlio il mestiere del padre viene ad essere spezzata.
Solo intorno alla fine degli anni 70 che “etno-antropologi seri,
invece di inseguire culture esotiche interrogano il loro recente
passato e cercano di ricostruire (e sognare) quel mondo quasi
perduto, dibattendo sull’importanza che i pupi avevano saputo dare
all’arte e alla cultura del nostro territorio”.
Una grossa spinta per la rinascita dei pupi è costituita dalla
domanda “turistica” di gente straniera che quando approda in
Sicilia vuole vedere non solo il suo presente ma anche il suo
passato, fino al punto che nell’immaginario collettivo passa
l’equazione Pupi (e carretti) uguale Sicilia, testimoniata dalla
notevole presenza di pupi-gadget in tutte le località a forte
attrazione turistica.
L'Unesco nel 2001 ha dichiarato il Teatro dei pupi "Capolavoro del
patrimonio Orale e Immateriale dell'Umanità", attribuendo così per
la prima volta un simile riconoscimento non a statue, a monumenti
o a siti storici, ma ad una tipica espressione della cultura
popolare. In tal modo i pupi sono stati inseriti nel patrimonio
mondiale degno di tutela per far sì che non scompaia uno dei più
originali prodotti della tradizione siciliana, ma anche
dell'artigianato isolano, che con passione e dedizione ha saputo
trasformare questi pupazzi in vere e proprie opere d'arte.
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Struttura e costruzione del pupo.
La struttura
di base del pupo è costituita da tre
elementi fondamentali: legno, metallo e
stoffa.
In legno: la testa (avvolte in
terracotta), busto, gambe, braccia, avambracci e mani (la destra con pugno chiuso in modo da poter tenere la spada mentre l'altra è aperta per potervi legare lo scudo).
In metallo: giunti che uniscono le gambe al busto, giunti delle ginocchia (solo nei pupi Palermitani), l'asta che serve a sorreggere il pupo (parte integrante della testa) e che mediante un gancio si collega al busto, una seconda asta in metallo, regge la mano destra; tutto il repertorio ornamentale delle armature realizzate con materiali vari quali:
rame, ottone e alpacca (una lega conosciuta anche come argentana, composta da rame al 50%, nichel al 20% e zinco al 30%), lavorate con la tecnica a sbalzo.
In stoffa: le parti che uniscono gli avambracci e le braccia al busto, la faroncina (gonnellino), i pantaloni alla zuava (a sfuffu), il mantello, le calze lunghe a coscia.
Un’adeguata imbottitura del busto con paglia, sorretta con tela di iuta, dà al corpo rotondità e volume (impagliatura).
La scelta del disegno non è casuale, né viene affidata alla creatività dell’artigiano, ma fa preciso riferimento a canoni prestabiliti, utilizzati per individuare il personaggio e quindi realizzare il necessario abbigliamento, esempio i pantaloni alla zuava per i Pagani, la faroncina, calze lunghe a coscia e berretti schiacciati per i Paladini, una tunica, uno scudo solitamente rotondo, una lancia e un turbante per i Mori.
Il pupo, spesso realizzato dallo stesso puparo, nasceva dal concorso di falegnami, fabbri ferrai, pittori, ramaioli e sarti.
Il pupo catanese, alto un metro e venti circa, dal peso di oltre 30 kg., ha gli arti inferiori rigidi, gli scudi dei guerrieri sono quasi tutti rotondi, la spada è fissata alla mano destra, la visiera dell'elmo spesso non è mobile e gli schinieri coprono la parte anteriore della gamba. Le corazze sono decorate con l'aggiunta di piastre pendenti (brindoli). Gli addobbi e i vestimenti sono piuttosto raffinati. Nel movimento il pupo è rigido, non può inginocchiarsi ed ha una cadenza quasi irreale.
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Struttura della messinscena
Il palcoscenico (struttura del teatrino
dell’opera dei pupi) nel suo insieme era
costituito da:
-
Le due quinte, in posizione diagonale rispetto al boccascena,
decorate con drappeggi, che unitamente al frontone delimitano il
boccascena. Dietro la quinta di destra sedevano i parlatori.
-
Le due quinte di copertura od ornamentali e le due quinte da
combattimento;
-
Il piano di appoggio dei pupi (passiaturi de’ pupi);
-
Il sipario, tenda a movimento verticale raffigurante una battaglia
e, spesso, il simbolo della compagnia;
-
I fondali, detti scene, venivano calati e arrotolati a mano dai
manianti;
-
I cielini, in numero di due opportunamente colorate per dare il
senso della prospettiva e per nascondere i manianti durante
lo spettacolo.
-
Lo
scannappoggio (ponte di manovra), posto a ridosso del
fondale, composto da un praticabile (faddacca) alto 70-80
cm. da terra, sul quale i manovratori in piedi, reggono e
maneggiano i pupi,
appoggiandosi ad un traversone detto barruni, armato per
tutta la sua lunghezza da un tubo in ferro ove si agganciano i
pupi in scena.
-
Retropalco dotato di uno stangone in legno per la collocazione dei
pupi da mandare in scena a cura dei pruituri che li
porgevano ai manianti su indicazione del parlatore.
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Il repertorio teatrale
Tra le principali tematiche trattate dall'Opra prevale la trattazione
di soggetti cavallereschi. Le fonti principali per questo tema sono le
Chansons de Geste e il romanzo arturiano.
Dalle Chansons de Geste deriva il Ciclo Carolingio che abbraccia un
periodo storico che va dalla morte di Pipino il Breve a quella
dell'Imperatore Carlo Magno.
In particolare il repertorio teatrale si rifà alla Storia dei paladini
di Francia Opera scritta da Giusto Lo Dico, nella quale si narrano le
innumerevoli battaglie tra cristiani e mori nella Spagna dell’VIII
secolo.
Il termine Paladino, dal latino palatinus (del palazzo), si riferisce
ai 12 Pari al servizio nell’esercito di Carlo Magno, che ricoprivano
le cariche più alte dell’ordine militare e costituivano una sorta di
guardia d’onore dell’Imperatore. I Paladini erano scelti personalmente
da Carlo Magno e obbedivano solo al re, ciascuno dei Pari era un
nobile, conte o duca, e doveva possedere particolari virtù: fede,
lealtà, forza e sprezzo del periglio.
Nel vasto repertorio cavalleresco, l’episodio centrale e fondamentale
del ciclo dei Paladini di Francia è quello della Rotta di Roncisvalle,
tanto da essere stato paragonato alla Passione di Cristo, mentre i
dodici Paladini, che reincarnano i dodici Apostoli, vengono traditi da
Gano di Magonza (novello Giuda). Ciò ha portato Antonino Buttitta ad
esprimere il seguente concetto: “Il teatro dei pupi non è più uno
spettacolo comune che noi diamo a queste parole, ma una cerimonia
liturgica, dove il pubblico ritrova e rimedita la propria concezione
del mondo”.
Altre tematiche, che hanno avuto uno sviluppo semplicemente locale,
riguardavano le vicende di Uzeta. Catania è la patria di questo
particolare Pupo nato dal genio dei due eccellenti artisti Don
Raffaele Trombetta e Sebastiano Zappalà. I due si ispirarono a Don
Giovanni Francesco Paceco duca di Uzeta, viceré di Sicilia verso la
fine del 1600.
Altro tema presente nell'Opra siciliana è quello banditesco. Molto
spesso, nelle storie narrate dai Pupi, compare il ladrone, il cattivo
di turno destinato in origine ad attirarsi le antipatie del pubblico e
di esser rappresentato come un personaggio sporco, dalla faccia poco
aggraziata ed atto solamente alle azioni più spregevoli come rapinare
i malcapitati viandanti che malauguratamente incappano nella sua
strada.
Vengono inoltre rappresentati episodi del Vangelo, vite di Santi e
della Madonna, come pure le imprese di Garibaldi e storie di briganti.
Una nota storica ci mette a conoscenza che nelle rappresentazioni
dell’opera dei pupi e dei cuntastorie siciliani si riunivano i
rivoluzionari, che comunicavano con il popolo
attraverso il "Paccaglio”, un linguaggio molto particolare che la polizia non conosceva e non
comprendeva. Spesso si facevano anche delle allusioni, dei riferimenti
a problemi e fatti politici, irridendo i potenti di turno.
Per tale motivo il teatro dei pupi e il cuntu, in alcuni
momenti storici, vennero considerati pericolosi in quanto stimolatori
di atteggiamenti rivoluzionari e mafiosi.
Ciascuna rappresentazione veniva preannunciata da un
"cartello" che riproduceva la scena principale della
serata, con una sintetica descrizione del programma. Il
commento musicale, quando c'era, era affidato a
musicanti di mestiere (con un violino, un mandolino e/o
una chitarra) che, su indicazione estemporanea del
"parlatore", eseguivano dei brani, veloci o lenti, a
seconda dell'azione scenica.
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I
personaggi più importanti
Il più celebre dei personaggi-pupi è Orlando
Conte d'Anglante, cavaliere forte e leale,
che è addobbato con un abito rosso, impugna la durlindana,
caratteristica spada ricurva ed è protetto dallo scudo ed un elmo con
un cimiero raffigurante un'aquila. Capitano dei paladini, noto anche
per il suo strabismo, è il prototipo dell'uomo fedele e leale e che ha
poca fortuna con le donne. Sposò Aldabella, sorella di Oliviero.
Protagonista
sempre vincente di numerosi combattimenti.
Nella Rotta di Ronsisvalle, Rolando, il nobile nipote di Carlo
Magno, combatte contro i mori che sono in numero sovrastante e fa
strage di nemici. Il suo valore non ha pari e neppure lo sfiora
l’idea di suonare il suo Olifante (corno
ricavato dalla zanna di elefante),
che sarebbe stato sentito dallo zio e quindi si sarebbe salvato la
vita. Così l’eroe si batte fino all’ultimo respiro; la sua spada,
che racchiude nel suo manico le reliquie dei santi, fa il vuoto
intorno a sé; i nemici cadono falcidiati dall’eroe. Solo quando si
accorge di avere sbagliato suona il suo fido corno e “decide di
lasciarsi morire” (nonostante che il suo corpo fosse invulnerabile),
raccomandando la sua anima a Dio. Il Signore lo chiama a sé e
manda gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele per accompagnarlo
verso la Sua gloria.
Oltre Orlando vanno ricordati:
-
Rinaldo
di Montalbano,
lo spirito ribelle che ebbe il coraggio di fuggire dal seminario, di
dedicarsi alle avventure amorose con donne pagane (pur essendo sposato
a Clarice), il simbolo dell'uomo scaltro.
Molto amato dal pubblico per la sua generosità, più elegante
del cugino Orlando, con abito verde e un cimiero raffigurante un
leone. (Considerato dagli spettatori "u forti o 'u Tommi Mich" della
situazione, paragonandolo a Tom Mix, eroe del cinema western muto).
-
Angelica,
il più famoso personaggio femminile dell'Opera dei Pupi,
principessa pagana, venuta nelle Corti francesi per creare
scompiglio, a causa della sua bellezza e del suo carattere
intrigante e provocatorio, perfino Orlando e Rinaldo si sfidarono
per amore suo; il suo matrimonio con Medoro è causa della pazzia
di Orlando.
-
Gano
di Magonza,
dopo la morte di Milone per mano dei Saraceni, ha sposato Berta, la
madre di Orlando e sorella di Carlo Magno. Gano, appartenente al gruppo dei Magonzesi, il cattivo, il traditore
per eccellenza del quale non ci si può certamente fidare,
rappresentato sempre con un volto barbuto, claudicante nel camminare e
dall'aspetto sgraziato, tanto da esaltare ancora di più la differenza
tra bene e male.
Pur essendo un paladino, rappresenta il peggior traditore
dell’esercito dei Paladini. Però era astuto, tanto da essere
considerato dal re un suddito fedele e un prode paladino, e quindi da
accettare qualsiasi consiglio. Il suo nome è associato alla
scorrettezza e ipocrisia (paragonato a Giuda). Riuscendo ad essere
perfino invidioso del proprio figliastro Orlando, per i favori
concessi dal Re Carlo. Appena era possibile cercava di rovinare o
addirittura far morire i più valorosi paladini come Rinaldo, Ruggiero,
Bradamante, Orlando. Tante volte tradì e cercò di distruggere il regno
di Francia, finché un giorno ebbe l’occasione giusta, e con un vile e
atroce inganno tradisce la propria patria, mettendosi d’accordo con il
principe di Saragozza e svelando ai Saraceni il modo per cogliere di
sorpresa a Roncisvalle la retroguardia franca di ritorno dalla Spagna.
A capo di essa c’era Orlando, che esitò a suonare l'Olifante per
chiedere soccorso, causando così la morte dei suoi compagni e propria.
La retroguardia viene sconfitta, ma Gano avrà una punizione orribile
per il suo tradimento: egli sarà squartato vivo e i suoi resti
bruciati e sparsi al vento.
-
Carlo Magno,
l'imperatore di Francia da cui prende il nome il ciclo carolingio;
figlio di Pipino il breve;
-
Ferraù,
figlio di Falsirone e Lanfusina, nipote di Marsilio re di Spagna ed è
uno dei più forti e soprattutto più superbi tra i cavalieri saraceni
di Spagna. Grazie ad un incantesimo egli è invulnerabile, tranne che
nell'ombelico, infatti usa portare sulla pancia un'armatura spessa
sette volte più del normale.
Ucciso da Orlando al termine di una lunga disputa teologica e un
duello di tre giorni fra i due, proprio dopo che avrebbe detto “Sono
incantato nell’ombelico ma non te lo dico”. Ferraù prima di morire
chiese il battesimo, che Orlando gli concederà, permettendo alla sua
anima di andare in Paradiso.
-
Agricane, un re della Mongolia ed imperatore della Cartaria, dopo numerosi
combattimenti si scontra con Orlando. Il duello che dura due
giorni, termina con la morte del re tartaro che, poco prima di
morire si converte alla religione cristiana. Il suo corpo venne
deposto in armi, come in un bel monumento funerario
rinascimentale, presso la fontana dell'acqua con cui era stato
battezzato.
-
Ruggiero
dall’Aquila Bianca, il conte guerriero, sposo di Bradamante;
sgozzato nel sonno da Gano;
-
Astolfo,
dalla lingua lunga; ebbe molte avventure tra cui quella di
recuperare il senno di Orlando, volando in Paradiso con l’Ippogrifo
(cavallo alato), muore a Roncisvalle.
Ed ancora: le guerriere Marfisa e Bradamante (sorella di Rinaldo);
la maga Alcina; Alda la Bella, sposa di Orlando; Erminio della
Stella d'oro; Ricciardetto, Mandricardo, Fioravante, Rizzieri,
Buovo d'Antona, Agollaccio, Uzeta il catanese, il re spagnolo
Circasso Sacripante, il sultano Solimano, Gemma della fiamma,
Clarice (fidanzata di Rinaldo), Pulicani (tipico pupo catanese dalla faccia
di cane e corpo umano), Malagigi, Peppinninu (curiosa
macchietta comica catanese, che manda in ridere l'atmosfera
tragica ed è l'equivalente del palermitano Nòfriu).
Per la visione di alcuni personaggi si rinvia alla
Sezione Pupi siciliani dell'Album
fotografico, dove le immagini segnate con
(1) sono state tratte dal volume "Catania,
la città, la provincia, le culture", Dafine
Editrice, 2008. |
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I pupari
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Il Puparo è l'artista-artigiano, vero fulcro dell'Opra dei Pupi. Alle
sue dipendenze lavorano almeno due aiutanti-apprendisti e richiedeva
la collaborazione del fabbro-ferraio (per la realizzazione delle
armature dei pupi), del pittore (per la realizzazione dei cartelloni e
per la decorazione del teatro) e dello scrittore di dispense (da cui
trarre i copioni). Spesso i componenti della famiglia aiutano il
puparo nello svolgimento del suo "mestiere",
che nel tempo si è dovuto fare carico anche di dette competenze.
Ogni puparo ha i suoi trucchi e tecniche sceniche ed il proprio
repertorio spesso personalizzato del quale è molto geloso e che rivela
il più tardi possibile ai suoi aiutanti, anche se appartenenti alla
sua famiglia. Essere un bravo puparo non significa solo essere un
bravo artigiano, ma anche esser un bravo attore visto che egli ha il
compito di animare i pupi e di dar loro la voce.
Nel catanese il primo puparo fu Gaetano Crimi (1835), seguito dalla
famiglia di Giovanni Grasso (figlio di Angelo), che nel 1870 fondò il
primo teatro dei pupi ad, Acireale, dove ha lasciato
un'impronta molto più profonda don Mariano Pennisi (1867
- 1934), detto "Nasca", il quale nel creare un teatro
stabile trasmise la passione per i Pupi al figlio
adottivo Emanuele Macrì (salvato dalle macerie del
terremoto di Messina del 1908): attivo sulla scena,
geniale nell'improvvisazione, Macrì riusciva a
trasformare ogni rappresentazione in un avvenimento
scenico degno della più completa ammirazione.
E ancora,
nel catanese va ricordata la famiglia di Don Raffaele Trombetta e
Sebastiano Zappalà e Pasqualino Amico, per la sua estrema abilità nel
costruire e manovrare i pupi e nel dar loro una voce inconfondibile e
indimenticabile, per proseguire con la casata degli Insanguine (Michele), che nasce a
Bari, ma poi si trapianta in Sicilia. Di tale dinastia va citato Nino
Insanguine soprattutto per la sua abilità nel dare ai suoi Pupi una
sorta di umanità ed una teatralità degna dei grandi attori. Nel 1921
don Gaetano Napoli, maestro artigiano (siddunaru) con lo
spirito dell’impresario, inaugurò il suo primo teatro da dove,
con l'aiuto dei propri figli Pippo e Natale, diede inizio ad
una tradizione familiare che ancora oggi, con la “Marionettistica dei
Fratelli Napoli”, contribuisce fortemente a mantenere viva questa
nostra tradizione storica e culturale.
Giuseppe Chiesa (impresario-puparo che iniziò la sua attività con
il giovanissimo Angelo Musco animando i Pupi al Teatro Machiavelli),
per la sua grande fantasia ed abilità e per avere creato dei
propri teatri; i fratelli Nino, Salvatore e Carmelo Laudani (“i
scappa pulita”) nel 1930 aprirono un teatro in Via Cesare Abba.
Ed ancora: Alessandro Librizzi "don Liscianniru", con
la moglie Marietta Crimi (figlia di Carmelo Crimi) e il figlio
Giuseppe, in Paternò, Mariano Pennisi, Don Biagio Mirabella (impresario in Via
Abate Ferrara), Don Bastiano Russo (u cassinaru), Turi Faro (u lumaru), Angelino Sapienza, Turi Caltabiano, Antonino Nicotra,
Saro Mannino, Vincenzo Sanfilippo (in Biancavilla), Gesualdo e Salvatore Pepe (in Caltagirone).
L’opera dei pupi meraviglia ancora noi tutti, la magnificenza delle
armature, la vivacità delle vesti e dei pennacchi, i movimenti
aggraziati e la varietà degli intrecci delle fantastiche storie
cavalleresche e non, il gusto della spettacolarità, le forti emozioni,
il romanticismo popolaresco che queste marionette di legno riescono a dare ancora. Ciò oggi si deve ai pochi pupari rimasti, tra cui i
Fratelli Napoli, la compagnia di Turi Grasso, l’Associazione “Il
Paladino” con Salvo Mangano, la Coop. Emanuele Macrì Srl., la A. C.
Primaria Compagnia Pupi Siciliani, la Compagnia di Roccazzella e
Amato, la compagnia dei Fratelli Scalia.
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Iconografia
e costruttori di pupi.
I maestri pupari per pubblicizzare le rappresentazioni si servivano di
cartelloni ('u cattellu) appositamente dipinti, che venivano
esposti fuori del teatro senza alcuna protezione.
A Palermo si adoperavano dei cartelloni dipinti a tempera su tela
larghi m. 2,00 e lunghi 3 o 4 metri, suddivisi a scacchi (come quelli
usati dai cantastorie), nei quali erano illustrati i momenti salienti
degli episodi, che dovevano essere rappresentati nel corso della
settimana; i riquadri variavano da un minimo di sei, per gli
avvisi ordinari, ad un massimo di dodici per gli avvenimenti più
importanti del ciclo, come per la rappresentazione della Lotta di
Roncisvalle.
A Catania, invece, i cartelloni venivano dipinti a
tempera su carta da imballaggio di m. 1,50 x 2,00, circa, e proponevano una
scena unica con la quale si reclamizzava
proprio la scena madre e centrale dello spettacolo del giorno.
Spesso erano gli stessi pupari che preparavano i cartelloni o facevano
ricorso a degli artigiani specializzati. Da notare che questi
cartelloni erano tramandati da padre in figlio per cui ogni puparo ne
aveva sempre pronti diversi per le varie necessità di scena, anche se
in qualche caso bisognava restaurarli.
Dopo il 1950 i cartelli furono dipinti su tela di cotone.
Tra i maestri di pitturazione dei cartelli
si ricordano: Ciccio Vasta e
Sebastiano Zappalà,
veri capi scuola, Carmelo
Chines
("u cuttu"), Francesco
Fisichella, Milio
Musmeci, Rosario e Natale Napoli, Antonino e Carmelo Laudani,
Nino Insanguine, Turi Faro, Salvatore Caltabiano, Agatino Lo Castro,
Nunzio Palumbo ….
Per quanto riguarda la costruzione dei pupi,
come in precedenza accennato, essa era curata dal puparo
e dai suoi familiari. In qualche caso si faceva ricorso
ad alcuni maestri, tra i quali: Giuseppe Maglia,
Pippino ‘ntisu u Panzuni e
Nunzio Buccheri, per le armature;
Emilio Musmeci, valente costruttore di armature di
Riposto;
Turi Faro ('u lumaru), Nino Insanguine, Ciccio Sarpietro ('u
cucchiu), Sebastiano Zappalà,
Pasqualino Amico, Saro Mannino, Antonio Sapuppo, Pietro Milazzo,
e ai giorni nostri Biagio Foti, Fiorenzo Napoli, Vincenzo Farfanti, Francesco Salamanca
(in particolare per souvenir), Salvatore Pulvirenti
……
Cartèllu
raffigurante la scena “madre” della battaglia di Roncisvalle
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CHANSON DE GESTE
A partire dalla fine del secolo XI, in Francia fiorì una vasta produzione poetica.
Nelle raffinate corti provenzali tale poesia fu ispirata al sentimento d’amore (la famosa “poesia cortese”), nella
quale si decantano le virtù morali dei classici antichi (tenacia, magnanimità, dominio di sé, temperanza) e le virtù cristiane (difesa della fede, generosità verso il vinto, protezione degli indifesi).
La poesia cortese non è altro che esaltazione dell’amore: tanto più la vita cavalleresca viene affinandosi e ingentilendosi, tanto più viene
elaborato e coltivato nell’arte e nella vita un nuovo ideale d’amore, presentato come un superiore principio che educa e
affina, e che stimola alla conquista della cortesia, cosicché ideale cortese cavalleresco e ideale amoroso diventano quasi la stessa cosa. L’amore è premio a
se stesso: la vera gioia sta nell’intensità del desiderio, prima che nel possesso; ha un elaboratissimo galateo, che riflette quello
dell’omaggio feudale (fedeltà assoluta, lealtà piena, saper celare la propria passione agli altri, essere il suo vassallo).
Nel nord della Francia, invece, dopo i primi testi ispirati a biografie e agiografie (vita dei santi, dei beati, ecc.) del X secolo, si sviluppò la
cosiddetta “Letteratura cavalleresca”.
La produzione di questa letteratura si estrinsecò in poemi epici che narravano avventure e fatti di armi di personaggi storici divenuti in seguito leggendari.
Questa poesia, meglio conosciuta con il nome di “Chansons de Geste”, in origine era destinata alla diffusione orale
e si propagò grazie a menestrelli,
trovatori e cantastorie.
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Dipinto raffigurante la morte di
Re Artù |
Di queste gesta ne
sono pervenute circa 80 opere, quasi tutte
anonime, scritte in strofe di decasillabe (versi
di 10 sillabe) e in seguito di dodecasillabe
(versi di 12 sillabe), con evidente evoluzione
di tale poesia in quanto si passa dall’assonanza
alla rima.
Gli argomenti delle Chansons de Geste si possono
raggruppare in tre cicli:
- bretone, narra le vicende dei cavalieri di Re
Artù e fu detto “Materia di Bretagna”;
- classico, narra gesta leggendarie
dell’antichità e fu detto “Materia di Roma”.
- carolingio, (o dei Re di Francia) narra le
gesta dei conflitti tra i grandi feudatari, le
lotte contro i saraceni e, in particolare e
soprattutto, le vicende di Carlo Magno e dei
suoi Paladini. Questo filone è definito
tradizionalmente come “Materia di Francia”.
La più famosa chanson de geste è la “Chanson de
Roland” (Canzone di Orlando) in lingua
anglo-normanno, che risale alla fine
dell’undicesimo secolo - inizio del dodicesimo,
e che è stata attribuita al cantastorie Turoldo,
non chiaro se fu l’autore dell’opera oppure
semplicemente un copista che scrisse il
manoscritto (all’epoca non c’era ancora la
coscienza da parte dell’autore dell’opera
d’arte).
L’opera si presenta in una rigorosa struttura
drammatica, in tre atti ed un epilogo e
raggiunse una notorietà incredibile che neppure
i secoli riuscirono a scalfire, tanto che in
seguito da essa trassero spunti per i propri
capolavori i poeti italiani come Luigi Pulci (Il
Morgante Maggiore), Matteo Maria Boiardo
(Orlando Innamorato), Ludovico Ariosto (Orlando
Furioso, I Cinque canti), Torquato Tasso (Il
Rinaldo), Vincenzo Brusantini (L’Angelica
Innamorata) ed altri autori (Li Reali di
Francia, Buovo D’Antona, Uggieri il Danese, La
Spagna Historiata, Guerino il Meschino,
attribuito ad Andrea di Jacopo da Barberino,
ecc.).
I contenuti, anche se per la maggior parte
leggendari, si ispirano allo scontro sui Pirenei
(Roncisvalle, 778) tra la retroguardia di Carlo
Magno con un esercito di contadini baschi
(alleati degli Arabi), nel quale perirono
numerosi soldati e alcuni nobili tra i quali è
citato Hruolandus (Orlando). Il Re, venuto a
conoscenza dell’accaduto, ritornò indietro e
sconfisse facilmente gli avversari.
I fatti storici vengono quindi rielaborati ed
idealizzati per offrire un modello di
comportamento per la società francese dell’epoca
delle crociate. Sono esaltati nel poema valori
quali il coraggio, l’eroismo in guerra, l’amore
verso la patria, la lealtà nei confronti del
sovrano. Senza contare che viene sottolineata la
religiosità dei paladini come valore pregnante e
fondamentale: tutte le loro imprese sono
effettuate sotto la spinta del motivo religioso.
Il racconto è molto semplice ed incentrato sulla
netta contrapposizione tra bene e male,
cristiani e non cristiani, narra una guerra
santa fortemente spettacolarizzata. |
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C'era na vota...
l'Opira de pupi
'N cartellu
ccu na battaglia addisignata intra a 'n tilaru all'angulu di 'na strada chiddu era u signali ca dda vicinu
di l'opira
de pupi c'era 'n tiatrinu!
Difatti
trasennu 'intra a 'sta vanedda
tingiuta di russu c'era 'na purticedda
ccu 'na lampadina di supra addumata
pi fari 'e
parrusciani la chiamata!
Comu la sala
era china di vecchi e di carusi
ccu
sucarri, calia, simensa e li gazzusi
sunava lu tamburinu, la luci s'astutava
e la
sirata magica dda intra cuminciava!
'Ntra lu sonu
di chitarri e minnulini traseva Carlu ccu li paladini
e
mentri ieva avanti la sirata
la genti
era tutta affatturata!
Ma comu Ganu
faceva lu tradimentu la genti chiù non aveva abbentu
trunza, aranci e scappi pronta a tirari
picchi l'avuna piffozza addifittari!
Oh lu gran
scantu ca ogni carusu pruvava quannu Malagigi lu Diavulu chiamava mentri tuttu lu pubblicu li manu abbatteva, quannu stragi di saracini Orlandu faceva!
Dopu tri atti
l’opra fineva
e mentri
ca la genti a casa si nni ieva
di la
sirata faceva lu cummentu si era Orlandu o Rinaldu chiù fotti 'nto cummattimentu!
Ppi setti o
ottu misi la storia durava e lu tiatru ogni sira si inchieva
picchi li storii erunu belli e tanti e bravu lu parraturi e li so' manianti!
Ma oggi tuttu
chistu non c'è chiù, finiu
e l'opira
de pupi scumpariu
e 'nta
sta Sicilia senza chiù ciauru di aranci e mannarini
mossunu Carlu e tutti i Paladini!
Gianni Sineri, 2005
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