Il palmento ('u
parmentu) è il caratteristico luogo dove si
pigiavano le uve.
Attrezzatura di particolare
importanza in questi locali di vinificazione fu il
torchio per la pressatura delle vinacce.
Il
sistema di torchiatura all’inizio era a leva, come
avveniva nel Torcularium delle antiche ville
pompeiane e stabiane del periodo romano; il sistema fu
poi migliorato con l’introduzione della vite.
La coltivazione della vite
sull’Etna, a differenza di altre aree siciliane dove il
regime latifondista era completamente delegato ai
potenti gabelloti della nobiltà palermitana,
consentì una capillare trasformazione dei terreni
collinari, che in poco tempo diventarono stupendi
vigneti. In considerazione della quantità di lavoro e
tempo che bisognava dedicare ai vigneti da parte del
proprietario e della sua famiglia, la trasformazione
agraria del vulcano determinò un’urbanizzazione
residenziale diffusa delle aree agricole, che si spinse
per le varie contrade sino ad ove era possibile
coltivare la vite.
Ogni vigneto di proprietà veniva
dotato di costruzione rurale comprendente l’abitazione
per la famiglia del proprietario e immancabilmente di
palmento, per la trasformazione dell’uva prodotta.
Il palmento, nella regione etnea,
ebbe così un’importanza oltre che economica, sociale e
politica. Il paesaggio agrario era contraddistinto da
centinaia di case-cantina di differenti tipologie
architettoniche, dimensioni e stili, riconoscibili, in
quanto architettonicamente caratterizzati da un piano
affacciato su una terrazza sostenuta da poderosi archi
sul piano terra per riparare i locali cantina.
Quest’ultima si distingue per la presenza di finestre
esposte a nord (aperte al vento di tramontana). I colori
tipici erano il rosa, l’ocra o il grigio.
Caratteristica peculiare nella fabbricazione del palmento etneo, oltre
l’utilizzo della pietra lavica, è quella di essere costruito in modo da
sfruttare, nelle operazioni di vinifìcazione, la forza di gravità, senza
utilizzo di nessuna attrezzatura di sollevamento del liquido.
Durante la
vendemmia l’uva veniva raccolta da squadre di operai dette ciurme
(composte da vinnignaturi e caricaturi).
La ciurma era composta da uomini, donne e ragazzi.
Intorno al 1938-40 la paga giornaliera era di circa 9-10
lire per gli uomini, e la metà per donne e ragazzi.
I
vinnignaturi provvedevano alla raccolta dell'uva,
mettendola in delle ceste (cannistri, coffe o cufini),
costruite con canne intrecciate e verghe di castagno,
che, allorché riempite venivano trasportati a spalla dai
caricaturi sino al palmento. Qui
salivano per delle scale e attraverso una finestra, scaricavano l’uva
nella pista: larga e bassa vasca in pietra lavica, dove si
trovavano alcuni operai (pistaturi) che la pestavano a piedi nudi o dopo aver
calzato pesanti scarponi.
I pistaturi,
con piccoli passi ritmati e le mani dietro la schiena,
effettuavano una sorta di girotondo, cantando delle
canzoni popolari tipiche vendemmiali. In questa fase
veniva utilizzato, per aiutarsi a pressare ulteriormente
i grappoli, il cosiddetto sceccu (asino): una
specie di ruota di 1,50-2,00 metri di diametro,
costruita con rami di salice intrecciati, su cui più
persone salivano sopra contemporaneamente dopo essersi
disposti in cerchio attorno ad esso. I pistaturi,
con la faccia rivolta verso lo sceccu con le
braccia poste ognuno sulle spalle dell’altro, iniziavano
a salire sullo sceccu ponendo
un solo piede sullo stesso, mentre l’altro rimaneva ben
fermo sulla pista.
Ad un certo punto uno di essi (di
solito u mastru di pala) dava il comando ed i pistaturi saltavano
contemporaneamente sullo sceccu e, flettendo ed
estendendo le ginocchia, pressavano ulteriormente ciò
che restava dei grappoli.
Attraverso
stretti canali in pietra lavica (cannedda) il mosto defluiva in un’altra vasca
sottostante, detta ricivituri, costruita con lastroni di pietra lavica, in
cui durante la pigiatura, si rimettevano di volta in volta i grappoli
già pressati (bucce e raspi) nella
pista.
Nel
ricivituri avveniva la prima fermentazione a contatto con le bucce ed i
raspi che durava, a seconda del tipo di vino e della zona, da un minimo di
24 ore ad un massimo di 3-4 giorni.
Con la
svinatura, dal ricivitùri, sempre attraverso un circuito di
canali in pietra (cannedda), il mosto in fermentazione veniva fatto defluire nella
tina, altra vasca in pietra lavica, oppure direttamente nelle botti che si trovavano in un altro locale
adiacente e sottostante al palmento, più basso, rispetto al palmento, di
3,5 - 4 m, detto ispensa, cioè la cantina.
La vinaccia, detta aspa,
dopo la separazione dal mosto in fermentazione, veniva
posta in un'altra vasca più piccola dove vi era il
torchio, detto conzu.
L’utilizzo del conzu prevedeva
la presenza di operatori esperti guidati dal cosiddetto mastrù
ri conzu, che dirigeva ed era responsabile di tutte le
operazioni di torchiatura.
ll conzu era
una macchina abbastanza complessa in cui la pressatura
avveniva ad opera di un contrappeso in pietra lavica,
costituito da tre parti fondamentali: una grossa trave
in legno di quercia, detta lignu i conzu; un sistema di
fissaggio centrale, detto scala, e posteriore della
trave, detto piedi; ed un contrappeso anteriore in
pietra lavica, detto petra di conzu, su cui si trova
innestata una lunga vite in legno di sorbo. Questa vite
aveva, alla base e distanziati tra loro, due fori in cui
si inseriva un palo necessario per farla girare. Per
compiere questa operazione, che consentiva alla pietra
di sollevarsi da terra e produrre la pressione
necessaria per spremere la vinaccia, erano necessarie
quattro persone, due da un lato del palo e due
dall’altro lato.
Il palo, una volta sollevata la
pietra, veniva tolto perché poteva essere pericoloso se
la pietra, tutto in una volta, ricadeva velocemente a
terra. Nella prima fase di pressatura, essendo la
vinaccia più carica di vino, la pietra, trovando meno
resistenza, scendeva più velocemente: in seguito più
lentamente, ed era necessario risollevare più volte la
pietra mettendo degli spessori in legno (cuscini) tra
la vinaccia ed il lignu i conzu. La pietra restava
sospesa da terra intorno ai 60 cm.
La torchiatura si svolgeva in
diverse fasi: nella prima, si formava in una vasca,
sotto il lignu
i conzu, con l’aiuto di apposite fasce in jùngu (giunco)
fissate con dei puntali di ferro, i cavigghiuni, una
cesta di vinaccia su cui veniva poggiata una specie di
zattera di legno detta tavuleri. Tra
il tavuleri ed
il lignu i conzu si ponevano gli spessori, cuscini.
Attraverso tutta una
serie di elaborati movimenti, in
cui il lignu
i conzu veniva fatto poggiare sulla cesta delle
vinacce e la petra
di conzu sollevata dalla sua base mediante la
vite di sorbo, si otteneva la pressatura del pastuni,
cioè della vinaccia. Questa operazione durava tutta la
notte.
Il mosto estratto
veniva utilizzato per fare altro vino, secondi vini o
vinelli.
Quando il mosto doveva essere trasportato nelle
rispettive abitazioni dei proprietari, mezzadri o
coloni, si lasciava 24 ore nella tina da
dove veniva prelevato con delle quartare
di mustu per essere versato in appositi
contenitori in tela di cotone (olona), detti utri
di lona. Tale operazione di misurazione veniva
effettuata da persona specializzata detta 'nzaccàturi.
Nelle botti di castagno dell’Etna
contenute nella ispensa, che tradizionalmente aveva il
pavimento in terra battuta ed un’altezza al soffitto di
7 m. e oltre, il mosto in fermentazione completava la
sua trasformazione.
Nella ispensa si trovavano i
cosiddetti tinelli torcifezza (monucu), in legno di
castagno, con le apposite strutture in legno e corde,
che servivano a filtrare le fecce prodotte con i travasi
del vino.
Il procedimento consisteva nel mettere le fecce dentro
un sacco di juta, legato ad un bastone di legno (cruci),
che si infilava dentro il tinello troncoconico. Il tutto
appeso in modo che, via via che il vino defluiva nel
tinello, questo diventava più pesante e pressava
ulteriormente la feccia dentro il sacco.
Le botti di castagno erano di
svariate misure. La botte media era di 6-8000 litri.
Oggi è ancora possibile trovare
alcuni anziani viticoltori che utilizzano i vecchi
palmenti per vinificare le proprie uve ad uso familiare.
Testo, con modifiche, tratto da "Etna. I vini del Vulcano", di Salvo Foti.
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