Ammula fòrfici e cuteddi,
arrotino, figura tipica che andava in giro con
una bicicletta su cui era montata una mola
(pietra abrasiva), opportunamente collegata ai
pedali mediante una cinghia, che funzionava solo
quando la bicicletta era sollevata su un
cavalletto in ferro. Sopra la mola vi era
collocata una scatola piena di acqua e fornita
di un rubinetto. Questo gocciolando
continuamente impediva alle lame da affilare di
diventare molto calde. I coltelli, le accette,
le roncole, le forbici ed altri attrezzi da
taglio affidati all’ammula forfici venivano
restituiti affilati come rasoi.
Questo lavoro originariamente veniva svolto con
un trabiccolo a ruota, molto pesante e
ingombrante.
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Camperi, campiere,
addetto all’organizzazione e alla guardia dei
feudi. Nei feudi di notevoli dimensione vi era
il primo campiere, o capo dei campieri, il quale
era responsabile della custodia dei magazzini,
ed aveva affidata la direzione generale del
feudo. Sotto di lui i campieri; che erano i veri
guardiani del latifondo, ma erano pure
incaricati della sorveglianza di qualunque
lavoro speciale che veniva eseguito sia dai
bifolchi, dai giornalieri o dai contadini
fittavoli e mezzadri, come pure dell’alta
sorveglianza del bestiame, e in genere di curare
l’esecuzione di qualunque ordine padronale. Essi
andavano sempre armati di fucile, e giravano la
tenuta a cavallo. I campieri in Sicilia erano di
due tipi: il primo era quello dell’uomo
violento, risoluto, dall’aspetto minaccioso e
poco rassicurante (probabilmente non in perfetta
regola con la giustizia); il secondo più docile
e laborioso, dall’aspetto più contadinesco, e
che aveva mansioni più strettamente agricole.
Con l'abolizione del latifondismo (Riforma
agraria, 1950),
scompare la figura del campiere.
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Cannizzaru,
trattasi di un ‘ntrizzaturi particolare che
costruiva cannizzi, intrecciando le canne
opportunamente spaccate. La canna comune (Arundo
donax) o canna domestica, è una pianta erbacea
perenne e dal fusto lungo, cavo e robusto, viene
raccolta nei mesi di gennaio e febbraio, per
essere lavorata dopo giugno, ad essiccazione
avvenuta. I cannizzi
fondamentalmente erano di due dimensioni: il
piccolo di m. 1,00 x 2,00, usato per essiccare
fichi, pomodori per farne delle conserve o per
fare l'estratto; il grande di m.2,50 x 4,00 e
più, che ad ultimazione dell’intreccio delle
canne veniva avvolto a cilindro per cucire le
due estremità, formando così un silos dove
conservare grano e altri cereali. Per evitare il
contatto con il pavimento, il cannizzu
veniva poggiato su una pedana in legno. Il
caricamento delle derrate avveniva dall'alto,
con l'ausilio di una scaletta. Il prelievo si
effettuava da un apposito foro, praticato ad una
altezza di 50-60 cm da terra, che veniva
otturato con un panno.
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Cappidderi e cuppularu,
costruiva cappelli (cappeddi) e berretti
(coppuli), ma, con grande maestria, li
riparava, li rivoltava, ridava loro il colore,
li puliva. Quindi, oltre che creatore, era anche abile
restauratore.
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Cardaturi,
colui che carda, che separa col cardo (pettine)
la parte più grossa dalla fina di alcune
materie, come lino, canapa, lana e simili. Più specificatamente il
cardatore veniva chiamato per sbrogliare i grumi
della lana dei materassi. La lana, infeltrita per
la costante pressione, perdeva il suo volume e la sua morbidezza
originaria. Il cardatore si piazzava con la sua
macchina cardatrice (u scardaturi) all'interno del cortile o
lungo la strada, apriva il mataràzzo per
tirare fuori la lana e farla passare con attenzione dalla macchina. Dopo
tale operazione la lana, che si era fatta soffice e
sbrogliata dai grumi, veniva rimessa dentro il materasso che
veniva ricucito con grossi aghi. Stessa
operazione si faceva per i cuscini.
Aviri assai lana di cardàri,
vale essere in fastidio, in travagli.
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Carraduri o carruzzeri,
costruttore di carrozze e carretti.
A lui era demandato il compito della scelta del
tipo di legno più idoneo per la costruzione
delle
parti del carretto:
- noce: per la corona e il mozzo delle ruote, le
sponde ed i travetti;
- frassino: per i pioli;
- faggio: per le mensole e le stanche (aste);
- abete: per tutto il resto.
Compito
importante del carradore è la ferratura a fuoco
della ruota, pratica particolarmente pittoresca.
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Carritteri, chi
guida il carro o carretto. Il carrettiere era un
trasportatore di merci varie, che andavano dai
prodotti stagionali della campagna ai materiali
di costruzione, al carbone, al concime.
Generalmente il carrettiere lavorava per conto
terzi, proprietari terrieri, commercianti e
costruttori; raramente lavorava in proprio e
cioè comprando e rivendendo egli stesso la
merce. I rapporti tra produttori, acquirenti e
carrettieri erano spesso curati da un sensale.
I carrettieri in linea di massima erano proprietari
del carretto e del
cavallo.
La forma di pagamento era quella a
viaggio, la retribuzione era pattuita in base al
percorso da compiere e al tipo di trasporto. La vita dei carrettieri era 'nca
si caminava stratuna stratuna, cioè sempre
in cammino per le strade, lungo i percorsi si
fermavano no fùnnacu, fondaco, luogo di sosta
dove i carrettieri albergavano assieme agli
animali e per mangiare "un piattu ri pasta cu l'agghiu
e l'ogghiu", pasta con aglio ed olio (chiamata a
tutt'oggi alla carrettiera), o "all'asciuttu,
pani cù cumpanaggiu", pane con formaggio e
olive.
Per dormire ci si sdraiava supra u
pagghiarìzzu, sacco pieno di paglia.
Nei
fondaci i carrettieri si scambiavano le loro
esperienze di vita, si informavano sui prezzi
correnti nei vari paesi, ma soprattutto
cantavano, sfidandosi a gara a chi sapeva il
canto più bello. A Catania molto conosciuto era
u funnucu do cuttigghiu rassu.
Ragione di incontro erano poi
le fiere di bestiame e le feste religiose dove
essi convenivano insieme alle famiglie con
cavallo e carretto riccamente bardati. Cacciari
a misteri, cioè guidare il cavallo a regola
d'arte, è ciò che distingueva un carrettiere vero
da chi caccia a fumiraru, come un portatore di
letame. L'appartenenza alla loro categoria era
avvertita con orgoglio; essi, con il fatto che
andavano in giro per la Sicilia, conoscevano
molte persone, storie, fatti, notizie, usanze
tradizioni, che viaggiavano e si diffondevano con
loro, per cui si consideravano profondi
conoscitori della vita.
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Cartiddaru o panararu,
cestaio, facitor di ceste, panieri e simili,
intrecciando verghe di olivo, castagno, vimini, ecc, e
liste di canne. Cartedda (corba) era la
cesta con manici da potersi trasportare da un
luogo all'altro. U cartidduni era una delle ceste
più grandi, utilizzata per il trasporto dell’uva
dalla vigna al palmeto. Gli attrezzi necessari
erano un coltello, un falchetto e un punteruolo,
fatto con un pezzo di canna.
Un'attenzione particolare richiedeva il
rivestimento delle damigiane per l'olio e il
vino, in quanto bisognava rispettare la forma del
contenitore e assicurare una certa robustezza,
dovendo sostenere un peso che superava i 50
chili.
Intrecciare ('ntrizzari) canne e giunchi rientrava nelle
abilità comuni, per cui molti contadini vi si
dedicavano nei momenti di calo delle attività
agricole; in qualche caso il lavoro poteva
essere svolto a pagamento, dedicando qualche
rancata (una parte di giornata)
a fare alcuni oggetti.
I
contadini dell'area ad ovest dell'Etna, si
dedicavano anche alla costruzione dei furrizzi,
sgabelli rudimentali realizzati usando tronchi
di ferla, ferula (Ferula communis),
stante che le scarse condizioni economiche non
consentivano l'acquisto di sedie in legno.
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Panararu |
Cufinu |
Gistra |
Panaru 'mpagnatu |
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Carvunàru, chi
preparava il carbone per poi venderlo. Il
carbone, usato quale combustibile per cucinare o
per riscaldare, poteva essere di diversi tipi:
carvùni nommali, carvùneddu tenniru, carvùni
(duru)
di scoccia ri mennula, carvùni di jnestra
(Genista aetnesis), carvuni a pallini (ottenuto
da un impasto di polvere di carbone), apprezzato
per la sua durata e per il fatto di non
scoppiettare e di non fare faiddi,
adatto per fucuni di argilla
(focolaio mobile) e soprattutto per il ferro da stiro.
Operazione preliminare era la raccolta della
legna, che veniva
accatastata
in appositi fossati,
in modo da formare una sorta di
capanna, e successivamente veniva ricoperta,
prima con foglie e poi con terra per ridurre il
contatto diretto con l'aria, favorendo la trasformazione della legna in
carbone dopo l’accensione del fuoco, effettuata attraverso una
piccola fessura (purteddu). Dopo una lenta
combustione che durava giorni e giorni, si
provvedeva allo spegnimento con l’acqua. Quinsi
si procedeva alla
selezione,
all’insaccamento del carbone e caricamento sul
carretto.
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Ciaramiddaru,
suonatore di ciaramedda, cornamusa,
strumento musicale
a fiato, composto di un ùtru
(sacca di pelle di capra per la riserva d'aria),
a vùsciula
(blocco di legno con tre canne, una per dargli
fiato e le altre due per suonare).
Fondamentalmente l'attività si svolgeva nel
periodo natalizio davanti la
cona
o il presepe,
i cui preparativi si facevano coincidere con il
giorno dell'Immacolata. I
ciaramiddara
scendevano numerosi da Maletto, Bronte o
Randazzo,
con lo strumento stretto su un fianco, ricoperti dalle loro robuste pelli e calzando calosce di
gomma, i scarpitti ‘i pilu, per cercare a
Catania i
clienti (parrusciàni), dove fare le
suonate.
Ciò avveniva
a cominciare dal giorno di Santa Lucia fino alla
vigilia di Natale. Per i bambini era una grande
festa: dopo
avere ascoltato la suonata in casa della "zia"
più facoltosa,
accompagnavano per lunghi tratti u ciaramiddaru, finché non arrivava il
puntuale richiamo delle loro mamme.
In tempi meno recenti, davanti la cona e
i numerosi altarini presenti in diverse strade di
Catania, si potevano ascoltare le cantate della
Novena, che iniziava il 16 dicembre per finire il 24. Nove
erano i giorni della recita per simboleggiare i
nove mesi di gestazione della Vergine Maria;
nove erano le candele poste sul davanzale
dell'altarino da accendere una per ogni giorno
di recita.
Nonareddi
o ninnariddari erano chiamati gli
incolti suonatori, trasandati e trascurati
(meglio conosciuti come l'orbi, in quanto spesso
non vedenti), che intonavano nenie dolcissime (ninnaredde,
inni di lode dedicati al nascente Bambino),
dietro compenso di un bicchiere di vino e una
manciata di biscotti, specie quando si riunivano
davanti alle putie, dove venivano
attorniati di carusi dô quarteri che,
radunati per ascoltare quelle nenie,
approfittavano dell’occasione pi fari na
manciàta di càlia e simenza
A Catania tale tradizione storico-culturale, è
mantenuta in vita, tra gli altri, dall’Associazione Culturale
"V. Paternò Tedeschi", che sotto le festività
natalizie, portano in giro lo spettacolo de
“La Novena” (regia di Gianni Sineri).
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Cicuniaru o virduraru,
raccoglitore di verdure spontanee: ciconia, scalora, vurrànii, caliceddi, sechili sarvàggi,
cosci ‘i vecchia, cardedda, finucchieddu rizzu,
spàraci, etc,
ma anche di carduni,
cacucciuliddi spinusi, vaccareddi, crastuni.
Non si tratta di un vero mestiere, era (ed è
ancora oggi) un
espediente per guadagnare di che vivere.
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Conza piatti
e lemmi,
conzalemmi,
artigiano che provvedeva alla riparazione dei
piatti e lemmi rotti. Gli attrezzi occorrenti
per il suo lavoro erano: un trapano a mano fatto
di legno, filo di ferro non molto grosso, stucco
bianco in polvere; il tutto tenuto in una cassetta
di legno che portava sulla spalla e così andava
in giro a cercare lavoro. Dopo un attento esame
degli oggetti in terracotta da sanare, sulle
parti rotte praticava in modo simmetrico dei
forellini, dove infilava il filo di ferro, che
opportunamente stringeva per fare combaciare le
parti rotte. Infine passava una leggera mano di
stucco lungo la frattura e sui fili di ferro.
E così l'oggetto ritornava a svolgere la sua
originaria funzione.
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Crivaru, il
costruttore di setacci (crivi). I crivelli erano
di diverse grandezze e con maglie di diverse
dimensioni a seconda della derrata da ripulire
da pagliuzze e “simenzi strani”. Per setacciare
la farina si usava il crivu di sita (di fili di
seta).
Cuffaru, facitor di
bugnole, coffe, contenitori di paglia o foglie
di palma selvatica (giummara o curina), per
trasporto, per biada o crusca da dare alle
cravaccature. In questo caso si legava dai manici
alla testa dell'animale, facendo in modo che la
bocca arrivasse a circa la metà della stessa
coffa.
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Curdàru, di persona
che fabbricava le corde, funi, servendosi delle
proprie mani e di semplici attrezzi di legno, aiutato da
due componenti delle famiglia durante la
filatura e di tre nella fase di torcitura. La
materia prima era la canapa ed anche l’agave (zammara).
L’attività si svolgeva in ampi spazi da
permettere di stendere i fili in lunghezza, come
ad esempio u Passareddu (oggi Piazza Campo
Trincerato), dove operava don Pippinu u curdaru.
"Jiri nnarreri comu lu curdaru", cioè andare
indietro, sta ad indicare il modo di muoversi a ritroso
del cordaio.
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Custureri, sarto,
chi taglia i vestimenti e li cuce. L’arte del
confezionamento dei vestiti su misura ha avuto
la massima diffusione negli anni ’60, dando
origine a dei veri specialisti, quali modisti,
bustai, cravattai, camiciai, causunari (chi
cuciva i pantaloni) e interessando i ceti alti e
medi, con esclusione delle famiglie di basso
ceto che provvedevano in proprio al
confezionamento dei vestiti, grazie anche alla
diffusione delle macchine da cucire (“Singiri”,
ad esempio). in ogni cortile c'era sempre
qualcuno che faceva da mastra.
Chi faceva ricorso al custureri
doveva avere molta pazienza (per la lungaggine).
Prima bisognava scegliere il modello, poi la
stoffa, il colore, prendere le misure, fare le
prime prove con la stoffa 'ngiumata (imbastita), fare
le prove a stoffa cucita, e finalmente con la
prova finale era solito sentir dire "Stu
vistitu ti casca a pinnello", per dire che
il lavoro era stato fatto ad arte.
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Cuzzularu,
venditore di cozzuli da Playa (telline), pescati nello
stesso lembo di mare. Spesso accanto al panaru
di cozzuli da Playa, si trovavano altri
panara con cozzuli di Missina, rizzi, occhi
'i
voi, pateddi ed, infine, u mauru, pescati
nelle aree antistante il golfo di Ognina. U mauru era un’erba marina
dai lunghi filamenti callosi, citrigni,
dall’inconfondibile gusto di mare che, spesso da
solo, veniva venduto per le strade e servita in
cartocci di carta paglia, con una spruzzatina di succo di limone e
una spolverata di sale. Suo habitat naturale era
la zona costiera da Ognina a Stazzo, oggi quasi
scomparsa, probabilmente a causa
dell'inquinamento delle acque.
Ddisalòru o disalòro,
chi si dedicava alla raccolta della ddisa o
disa, tàgghia mànu (ampelodesmo =
Ampelodesmos mauritanicus), mietendo con la
falce le coriacee e resistenti foglie, della
lunghezza di cm. 70-90, scartando quelle più
corte, e legandole prima
a mazzetti e poi a fasci, con la stessa
ddisa.
Trattasi di pianta erbacea
pluriennale spontanea, a portamento cespuglioso,
che cresce in terreni marginali, poveri e
rocciosi.
Raccogliere la disa non era un mestiere
nobile anche perché rappresentava il simbolo per
antonomasia della miseria. Infatti quando veniva meno il lavoro
nei campi, la disa rappresentava la principale,
se non la sola, fonte di reddito, atta al
sostentamento di tante famiglie nei periodi di
vera magra.
La ddisa raccolta per le legature in
agricoltura (es. tralci delle viti), veniva
essiccata e immagazzinata e prima dell'uso si
faceva ammorbidire immergendola in acqua per
parecchie ore. In questo modo la foglia assumeva
la consistenza giusta di morbidezza che ne
favoriva l'ottimo impiego nei diversi lavori
agricoli. Per la legatura del grano e del fieno,
la ddisa veniva opportunamente intrecciata per
formare dei legacci abbastanza resistenti, detti
liami.
La ddisa veniva utilizzata per la
produzione del criniu, usato per
l’imbottitura di materassi, cuscini, sedie,
ecc.. Le foglie, parzialmente essiccate,
venivano immesse nelle "macchine del criniu",
per la necessaria sfibratura.
Il criniu, che poteva contenere anche
delle foglie di palma nana, è stato definito da
molti "la lana dei poveri" e sino agli anni `50
si diceva che avere il letto imbottito con la
lana era un lusso riservato ai più abbienti e
per le nuove coppie rappresentava un
innalzamento di livello sociale.
Il pagghiarizzu spesso era uno strato di
criniu sparso su una tavola adeguata, coperto in
genere da un sacco di tela che meglio delle
lenzuola e altre stoffe riusciva ad attutire il
leggero fastidio iniziale della fibra rigida.
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Fasciddaru, colui
che realizzava le fascedde (fiscelle), cestini,
ecc. utilizzando u juncu, il giunco (Juncus effusus). La
materia prima, raccolta lungo i margini di fiumi
o in terreni umidi, veniva fatto essiccare e poi
lavorato ad intreccio per formare fascedde,
contenitori per ricotta (due chili circa),
o cannistri, contenitori per formaggio (‘ncannistratu),
ecc.
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Giunco
(juncu) |
Fascedda |
Cannistru |
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Firraru,
maniscalco, fabbro, (mastru per
eccellenza), chi principalmente forgiava
i ferri per gli zoccoli dei cavalli, dei muli e
degli asini. Il fabbro batteva il ferro
arroventato sull’incudine in modo quasi ritmato
e meccanico. Il ferro rovente perdeva la sua durezza e sotto
i colpi del martello si poteva modellare, per
creare ferri di cavallo ed anche arnesi e
utensili per i lavori di campagna: zappe, falci,
ecc., fino ad arrivare agli arabeschi per
carretti, inferriate e cancelli. Erano in pochi
ad occuparsi solo di ferratura e medicazione di
cavalli (maniscàlcu). Al ferraio si
rivolgevano non solo i contadini, i pastori o le
massaie, ma anche gli altri artigiani per
completare le loro opere o per la manutenzione
dei loro strumenti di lavoro.
Un particolare tipi di fabbro era 'u ramaturi,
che si faceva carico di preparare le
boccole, 'i vìsciuli, che sono delle
scatole metalliche a forma di tronco di cono,
che vanno incastrate nei mozzi delle ruote,
realizzate con una lega speciale, composta da 78
parti di rame e 22 di stagno.
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Fumiraru,
raccoglitore di fumèri, concime
stallatico. I “fumirara”
oltre al letame dalle stalle raccoglievano
tutti i rifiuti organici dagli stabilimenti,
dalle botteghe (raccolta "porta a porta") e per le strade. Il tutto veniva
mescolato e venduto per la concimazione dei
terreni agricoli, divenendo fonte di reddito per quelle
famiglie che da questo traevano sostentamento.
Tale "attività" cessa negli anni 50, allorché il
Comune di Catania istituisce il servizio di
nettezza urbana.
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Gnuri, cocchiere,
il conduttore di carrozze, che svolgeva il
servizio di trasporto urbano delle persone. Era
una attività piuttosto modesta, anche perchè si
preferiva viaggiare a piedi.
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Jurnatàru,
chi lavorava a giornata, travagghiari a jurnata,
essere pagato per ogni giorno di lavoro.
U
jurnatàru ( bracciante) era pronto ad ogni
chiamata e a recarsi in qualunque posto, con
mezzo proprio e dotato dei necessari attrezzi di
lavoro: falce, zappa, pala, forbici, ecc.
Lavorava a giornate per un numero di ore
imprecisato, mai inferiore ad otto; espletava
ogni sorta di attività connessa alle diverse
colture agricole. Il
lavoro era duro, lungo e faticoso, fatta
eccezione di brevi pause per mangiare, un pezzo
di pane (menza vastedda) con un pomodoro,
o una cipolla, o un uovo sodo, o un po’ di
verdure cotte la sera avanti e bere un po'
d'acqua e qualche bicchiere di vino. Il tutto
portato da casa dentro u tascapani o sacchina
(borsa di tela o di paglia). Anche se la fatica
era quasi disumana, specialmente d'estate, il
compenso era modesto; purtroppo i braccianti non
potevano reclamare, altrimenti non si sarebbe
presentata una nuova "chiamata al lavoro". I più
fortunati riuscivano a trovare dei lavori
stagionali presso qualche grosso proprietario
terriero. Quando si doveva
effettuare la mietitura del frumento, lo sfalcio dell’erba, la raccolta
delle olive, zappature della vigna, raccolta
dell’uva, ed altri lavori per i quali era
necessario un certo numero di persone, la
selezione (scelta) si faceva la domenica mattina in
Piazza Palestro (Furtinu), che rappresentava una
sorta di ufficio di collocamento a chiamata
diretta. Il "padrone", accompagnato dal
massaru,
dopo aver fatto un giro di ricognizione, si
avvicinava al prescelto e guardandolo negli
occhi, gli diceva “Tu cala.”, oppure gli toccava
la punta della scarpa con la propria;
l'operazione si ripeteva fino al conseguimento
del necessario numero di operai. I dettagli
"contrattuali", erano affidati al massaru. Talvolta
l'operazione veniva eseguita dal capu chiurma
o dal capurali.
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Lattaru, allevatore
di pecore o capre, che provvede alla mungitura e
alla distribuzione del latte di primo mattino. A quell’ora
passava la vecchia o la giovanissima pastora
che, con le sue caprette al seguito, portava il
latte di casa in casa, dove ci si apprestava a
fare colazione: La massaia usciva sull’uscio,
oppure calava u panaru, con
una bottiglia, una ciotola o lo stesso pentolino che avrebbe
messo sul fuoco a bollire e assisteva la pastora
che “mungeva” la sua capretta, che belava
infastidita dalle frequenti palpazioni. Questi
pastori non provenivano da lontano; nello stesso
quartiere, in delle vie o dei cortili interni,
attaccate alle case di “civile abitazione”, vi
erano le stalle con le caprette, le pecorelle ed
anche le mucche. I pastori con le bestiole
più piccole andavano per le case a distribuire
il latte, chi aveva le mucche lo distribuiva in stalla,
per cui bisognava andare attrezzati di bottiglia
per attingere il latte fumante dai classici
bidoni di alluminio.
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Lavannara,
lavandaia, donna che lavava la biancheria degli
altri. Di tale servizio ne usufruivano le
famiglie benestanti che potevano permettersi di
pagare, ma anche le famiglie meno agiate in caso
di malattie o di impossibilità a lavarsi i
panni. Di solito il lavoro veniva svolto da
vedove o donne che non avevano da che vivere. Il
lavoro veniva eseguito lungo i corsi d'acqua,
nei lavatoi pubblici ed anche nelle fontane.
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Lavuraturi,
aratore, colui che arava il terreno usando
l'aratro. Il lavoro veniva eseguito da chi
sapeva cacciare le bestie (muli, asini, buoi),
che
non sempre erano di proprietà dello stesso lavuraturi.
In campagna si arrivava all'alba, si scendeva
l'aratro dal carretto e si spaiva, quindi
si attaccava l'aratu alla bestia, e si
dava inizio alla lunga giornata di lavoro.
Ordinariamente si utilizzava il mulo. A Catania
si ricorda che solo Pippinu 'u codici,
utilizzava la mucca, molto lenta nel camminare,
per cui era costretto a partire prima da casa e
tornare più tardi, rispetto ad altri che avevano
un equino.
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Luppinaru,
venditore di luppini (lupini = Lupinus spp.).
Munito di bicicletta sulla quale vi caricava du
panara ri luppini, che vendeva co coppu
(involucro) fatto di carta paglia (che era
usata per avvolgere la pasta quando si comprava
a “ròtulu”).
Ordinariamente si sentiva vanniari
(pubblicizzare a gran voce) dopo
pranzo del sabato o della domenica; era solito
anche piazzarsi vicino na putia, dove il
cliente poteva prendere anche un bicchiere di
vino.
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Mastru r'ascia,
generica indicazione di chi lavorava il legno
per produrre utensili, attrezzi, mezzi di
trasporto, giocattoli, mobili, aratri, torchi,
botti, carretti, ecc., dando origine alle
rispettive specializzazioni.
Abilità del mastro d’ascia era la capacità di
identificare ciascun tipo di legno basandosi sul
colore, sul profumo delle resine, sulle
geometria delle venature, sulla durezza e su altri dettagli
legati alla personale esperienza.
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Mitituri,
mietitore, colui che svolgeva il lavoro di
raccolta del grano, orzo, avena ed anche dell’erba per fare
il fieno.
I mitituri, muniti di
fauci, di
fauddàli o pitturali (grembiule
di olona per mietitori), di manichedda
(bracciolo o manicotto di cuoio od olona, per
coprire l'avambraccio sinistro) e
di
cannèddi (ditali di canna per
proteggere le dita: mignolo, anulare e medio,
per proteggerli dalla lama della falce), effettuavano il
taglio del grano lasciandolo sul terreno a mannelli
o mazzetti (jermiti o manata,
cioè quanto ne può contenere una mano),
opportunamente legati con 4-5
steli dello stesso grano.
Seguiva u lijaturi
(legatore) che,
dotato di ancìnu e anginedda, provvedeva
a riunire 7-9 mannelli (jermiti) per
legarli insieme a formare na
gregna (covone), usando la
liami (una sorta di cordicella vegetale realizzata
con l'intreccio delle foglie di ddisa o tàgghia mànu, ampelodesmo
= Ampelodesmos mauritanicus; la raccolta delle foglie veniva fatta dal
disaloru, stagionalmente od occasionalmente).
Le gregne venivano sistemate a tre a tre,
alla distanza di un metro, a formare 'a
murrata, in posizione verticale, con le
spighe rivolte in alto, per favorire
l'essiccazione delle spighe e per evitare
l'eventuale contatto col terreno in caso di
pioggia). Dopo un paio di giorni, le gregne
venivano legate sul dorso del mulo (tre per
lato), per essere trasportate (stravulijate)
nell'aia ('nta l'àrija). Quì si ponevano
l'uno sull'altro a formare 'u
mazzu (n. 20 gregne) o na timugna (n. 100 gregne),
in attesa della trebbiatura.
La mietitura spesso veniva effettuata
lontano da casa, nelle zone cerealicole
dell’entroterra siciliano, quindi con
impossibilità di effettuare il rientro. Era un
lavoro faticoso, anche perché bisognava “sapiri
stari all’àntu”, ossia bisognava tenere il ritmo
di lavoro degli altri mietitori, tutti sorvegliati a
vista dal massaru o dal camperi.
Oltre la quantità del lavoro (mietitura di una fascia di
circa 3 metri), veniva controllata anche la
qualità, ossia che non restassero
spighe a mietere. In questi casi si metteva in
atto il
vecchio detto: "Spica ca' no pò metiri
scianchila" = "Spiga che non puoi mietere
calpestala".
Ai mietitori, oltre alla paga giornaliera,
spesso veniva dato del vinello (o vino misto ad
acqua) che veniva messo in un contenitore in
legno detto carratedduzzu, (piccolo
carrateddu) di litri 1,5.
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'Mpagghiaturi
o 'mpagghiaseggi, chi
impagliava le
sedie, ma anche cestini ed altri oggetti. Spesso,
lo stesso andava a raccogliere le foglie di erba
sala o stiancia o mazzasorda, con le quali, dopo
essiccazione al sole, si tesseva il fondo della
sedia. Trattasi principalmente do junciu
moddu cu mazzaredda 'mpunta (Typha angustifolia,
T. latifolia), un'erba acquatica che cresce
spontaneamente nei terreni umidi. A Catania per tali lavori
('ntramàri i seggi) si
preferiva la zammara, spago ottenuto con
fibre di Agave americana, detta
appunto zammara.
'U junciu moddu veniva usato anche pri
'mpagnari cufina e panara, opportunamente
rifiniti con tela di juta. Ciò per
evitare che le bucce dei prodotti agricoli messi
negli stessi contenitori venissero danneggiate
dalle parti spigolose delle liste di canne con
le quali erano realizzati.
Per l'imbottitura delle sedie si usava
soprattutto il criniu, foglie di disa (Ampelodesmos
mauritanicus) o foglie di palma nana,
opportunamente lavorate con apposite macchine ("fabrica
del criniu")
U 'mpagnaseggi
girava per tutto il paese a piedi, con la
cassetta a tracolla, piena di giunchi di diversi
colori o
zammara
e con i necessari attrezzi.
Quando era chiamato per la sistemazione delle
sedie, svolgeva il suo lavoro in silenzio e con
molta calma, anche perché, oltre alla capacità,
doveva avere una buona dose di fantasia.
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Niculiziaru, colui
che andava a raccogliere radici di liquirizia (Glycyrrhiza
glabra, pianta erbacea perenne). La
raccolta si effettuava in diverse aree della
Piana di Catania, dove cresceva e cresce ancora in modo
spontaneo, come erba infestante. Era necessaria
una zappa ri rarica, dalle dimensiono
minime di
cm. 16-18 di larghezza, cm. 30-35 di
altezza e dal peso di oltre 2 Kg. Un capace
niculiziaru riusciva a scavare fino a 40 Kg di
rarica al giorno.
Le radici
raccolte venivano legate a fasci, per essere
trasportate, in bicicletta, a casa. Nei
giorni seguenti
le donne ripulivano le radici, spellando la corteggia con un
coltello e le mettevano ad asciugare al sole, per
poi consegnarle alla “fabbrica da niculizia”,
dove si procedeva all'estrazione del
succo.
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‘Ntrizzaturi,
persona che realizzava oggetti di uso quotidiano
intrecciando le foglie secche di palma nana (Chamaerops
humilis) ed anche di altre piante. Occorrevano degli attrezzi semplici di
uso comune: forbici, aghi e filo, e qualche
pezzetto di stoffa colorata o qualche sonaglio
per le decorazioni. Gli oggetti realizzati con
l'intreccio di "curina" erano: cappelli a larghe
tese, che i contadini usavano per ripararsi dal
sole estivo, borse, cestini, coffe (borse
tipiche con due manici di cordicella ai due
lati, usate sia dai contadini che dai pescatori
per trasportare il cibo della giornata, o dalle
massaie per fare la spesa al mercato, per dare la
biada ai cavalli). U
muscaluraru realizzava i tipici ventagli di forma
circolare detti "muscalori", da
mosca, che venivano usati dai macellai e
pescivendoli per allontanare le mosche che
numerose si poggiavano sugli alimenti in vendita;
ma soprattutto usati per ravvivare la fiamma de'
fuculara.
Con le foglie più
dure e larghe (scupazzu), si realizzavano
le scope.
Un particolare tipo di 'ntrizzaturi era u
zimmilàru che realizzava grossi
contenitori (grandi visazze = bisacce), detti appunto
zimmili,
da sistemare in coppia sui fianchi dell'animale
da soma, per trasportare oggetti e prodotti
agricoli vari.
U zimmilàru realizzava anche delle stuoie
per diversi usi.
Con le foglie cardate si otteneva il crine (u crinu),
un materiale soffice e resistente, utilizzato
per riempire materassi e cuscini e per imbottire divani,
sedie e finimenti per cavalli.
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Picuraru, pecorajo,
guardiano delle pecore, più in generale di
persona dedicata all'allevamento degli ovini,
che si occupava dell'alimentazione, pulizia, mungitura e cottura del
latte per la produzione di ricotta e formaggi.
In maniera riduttiva, si indica la persona
chiamata a sorvegliare le pecore durante le fasi
di accompagnamento al pascolo e relativo rientro
all'ovile (mànnara). Questo lavoro spesso veniva affidato ai
ragazzi.
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Piddaru, conciapelle, persona che si
dedicava alla concia delle pelli, utilizzando il
tannino che si estraeva dalle foglie e dalla
corteccia del sommacco (Rhus coriaria). I locali
dovevano disporre di una grande quantità di
acqua e di un certo numero di vasche per
effettuare i vari passaggi delle pelli. Chi
lavorava nella conceria era costretto a stare
per tutto il giorno inzuppato d'acqua,
esponendosi ad ogni sorta di malanno e a
svolgere il proprio lavoro in un ambiente
malsano e maleodorante.
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Pilucchera, che pettinava, con
particolare maestria, le donne che si affidavano
alle sue cure. Lavoro addirittura faticoso se si
pensa alla capigliatura abbondante, alle trecce
che poi venivano raccolte nel famoso tuppu.
Girando casa per casa, la pilucchera cercava di
non fare annoiare le clienti, raccontando, i
fatti appresi in altre case, specie se piccanti,
per cui la pilucchera era considerata la
pettegola del quartiere, per antonomasia.
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Pircantaturi
o procacciaturi ri debiti, non era un vero mestiere, si
indicava una persona a cui si affidava il
compito di piazzarsi nei pressi di una casa per
costringere, con la sua insistente permanenza,
il suo inquilino a restituire un bene o
estinguere un debito
alla persona (creditore) che lo aveva incaricato di questa
curiosa incombenza. Il debitore per evitare
di essere indicato come cattivo pagatore, si
premurava a restituire quanto dovuto.
Oggi si può definire quale addetto al recupero
crediti, atteso che comunque sono cambiate le
modalità di svolgimento di un tale lavoro.
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Pistaturi, operai
che pestavano l'uva a piedi nudi o calzando pesanti scarponi. I pistaturi, con
piccoli passi ritmati e le mani dietro la
schiena, effettuavano una sorta di girotondo,
cantando delle canzoni popolari tipiche
vendemmiali. In questa fase, per aiutarsi a
pressare ulteriormente i grappoli, veniva
utilizzato il cosiddetto sceccu (asino): una
specie di ruota di 1,50-2,00 metri di diametro,
costruita con rami intrecciati di salice, su cui
più persone salivano sopra contemporaneamente
dopo essersi disposti in cerchio attorno ad
esso. I pistaturi, con la faccia rivolta verso
lo sceccu e con le braccia poste ognuno sulle
spalle dell’altro, iniziavano a salire sullo
sceccu ponendo un solo piede sullo stesso,
mentre l’altro rimaneva ben fermo sulla pista.
Ad un certo punto uno di essi (di solito u mastru di pala) dava il comando ed i
pistaturi
saltavano contemporaneamente sullo sceccu e,
flettendo ed estendendo le ginocchia, pressavano
ulteriormente i chicchi d'uva che erano rimasti
attaccati ai grappoli.
Pizzaloru (cenciaiuolo),
persona che si dedica alla raccolta di pezzi di
stoffa, panni consumati e stracciati (ma anche
materiali ferrosi, ecc.) per venderli.
U robbìvicchiaru,
invece, compra e rivende vestiti usati per le
strade o in apposite botteghe.
Prefica, più
comunemente usato al plurale
prèfichi, piagnone, per indicare un
gruppo di donne che svolgevano il curioso
compito di piangere e strapparsi i capelli
durante la veglia e il funerale di un defunto,
regolarmente pagate dai parenti, che sebbene
affranti dal dolore, si servivano di esse per
dare più tristezza e costernazione alla dolorosa
dipartita del caro congiunto.
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Puparu, chi muove i
pupi, oppure proprietario di un teatro di pupi.
Il puparo era l'artista-artigiano, vero fulcro
dell'Opra de' Pupi. Alle sue dipendenze
lavoravano almeno due aiutanti-apprendisti e
richiedeva la collaborazione del fabbro-ferraio
(per la realizzazione delle armature dei pupi),
del pittore (per la realizzazione dei cartelloni
e per la decorazione del teatro) e dello
scrittore di dispense (da cui trarre i copioni).
Spesso i componenti della famiglia aiutavano il
puparo nello svolgimento del suo "mestiere", che
nel tempo si era dovuto fare carico anche di dette
competenze.
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Putiaru, il gestore
della putia (bottega) dove si svolgeva
una attività o si vendeva della merce, più
specificatamente dove si poteva gustare il
quartino di vino, rosso o bianco (ca cazzusa o senza),
'u bicchireddu di zìbibbu o marsala, e
soprattutto si poteva mangiare il
piatto di liumi (legumi: ciciri, triaca,
linticchia o favi), cu l'ogghiù bonu e pani ri
vastedda. E, solo in alcuni giorni della
settimana, si poteva mangiare un buon piatto di
quarumi (caldume, pietanza calda), oppure di
mussi (guanciali) e carcagnola (nervi
e tendini di bovino), il tutto opportunamente
pulito e bollito, accompagnato da cipolla, sale,
pepe, nelle più svariate combinazioni.
Nella stessa putia i quattru (e più)
cumpari si riunivano per fare la giocata
a patruni
e sutta ('u toccu)..
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Ruffianu,
chi fa da intermediario per favorire i rapporti
amorosi degli altri. U ruffianu, grazie
al suo accattivante modo di fare, era capace di
entrare nelle grazie di una donna o di un uomo,
ponendosi da intermediario al fine di far
scaturire un fidanzamento e perfino un
matrimonio, divenendo così un paraninfu,
cioè un combinatore di matrimoni.
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Salaru o salinaru, chi vendeva
il sale trasportato su carro o carramattu,
arnese a quattro ruote, di cui le due anteriori,
direzionali, sono collegate a due aste per il
traino con mulo o cavallo). Il sale
veniva raccolto nelle saline e riposto in cumuli sul piano di carico
del carro.
Il salaru andava in giro abbanniannu: "Aiu u' sali. Sali finu e sali
rossu", con gli occhi rivolti verso il
cielo per evitare che qualche acquazzone non
sciogliesse il suo prezioso carico.
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Sapunaru, chi
produce il sapone ed anche leva macchi,
varichina, ecc. detersivi per la pulizia della
casa e della persona. Il sistema di fabbricare
il sapone consisteva nell'utilizzare la morchia
"muria" (residuo dell'olio d'oliva) e in qualche
caso anche dell’olio andato a male. Al tutto si
aggiungevano dei materiali potassici (cenere), per fare
avvenire l'idrolisi alcalina degli acidi grassi,
e si portava ad ebollizione per diverse ore,
mescolando opportunamente.
Dopo il raffreddamento, il sapone che si veniva
a formare, si raccoglieva in apposite forme per
essere essiccato e poi venduto.
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Scarparu,
calzolaio, colui che costruiva scarpe su misura
che non si dovevano distrùdiri mai. La qualità
delle scarpe era legata alla flessibilità,
leggerezza e cuciture a mano. La durata era
legata all’abilità nel riparare le
scarpe, risuolatura, mettere i sopratacchi e
ricucire le parti che si andavano squarciando.
Gli attrezzi usati erano: delle forme in ferro e
in legno di
varia dimensione che servivano per inserirci le
scarpe, un caratteristico ed affilatissimo
coltello "u trincettu", il martello dalla forma
caratteristica, tenaglia, lesina, raspa, spago,
aghi, colla, cera, pece, vetro per levigare le suole, e
tutta una serie di piccoli chiodi "a siminzedda", il tutto sparso su un basso tavolo da
lavoro,’a vanchitta. Spesso l'interessato
si toglieva in bottega la scarpa da riparare,
aspettando il completamento del lavoro di
riparazione, anche
perché non si possedeva un altro paio di scarpe
di ricambio.
Un tempo, lu scarparu, con
la sporta degli arnesi del mestiere sulla spalla
sinistra ed un panchetto nella mano destra,
girava per vicoletti e cortili gridando ad ogni
fermata : "U scarparu passa! Va cunzàtivi li
scarpi!"
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Scritturàli,
scrivano, o meglio colui che tiene in ordine i
conti dei mercatanti. Trattasi di una figura
che, a mo' di spurugghia facenni, si collocava
con un proprio banchetto e alcuni fogli prestampati, nell'ingresso di uffici pubblici
(anagrafe, prefettura, distretto militare,
Camere di commercio, Inps, Cassa malatia, ecc.)
per compilare le istanze e i modelli vari
occorrenti per la richiesta di certificati,
licenze, autorizzazioni. La prestazione non
aveva un tariffario: "zoccu mi voli rari mi
runa".
Allo scritturali ci si rivolgeva per
leggere una comunicazione dagli uffici pubblici
o una lettera da parenti lontani, più
comunemente dal figlio soldato, e quindi anche
per scrivere le eventuali risposte. Va ricordato
che, dopo la prima guerra mondiale,
l'analfabetismo in Sicilia superava il 40% della
popolazione.
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Siggiaru, artigiano
che provvedeva alla sistemazione delle sedie. Il
lavoro di costruzione veniva effettuato in
laboratorio. Il lavoro di sistemazione si
eseguiva presso il domicilio del cliente: ‘u siggiaru andava in giro dotato della propria
cassetta dei ferri (con dentro vari tipi di
spago e paglia, martello, chiodi, raspa e colla) e bbanniannu si cercava i
clienti (“U siggiaru passa... Cu s’abbissari i
seggi”).
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Siminzaru o caliaru,
colui che lavora e vende ”calia e
simenza”, semi di zucca (tostati e salati),
ceci caliati (abbrustoliti), nucidda
miricana o calacausi (arachidi), ecc. Spesso
la vendita avveniva nei cinema durante gli
intervalli delle proiezioni. Il giovane
venditore, dotato di una cassetta di legno
ripiena di calia e simenza, che portava
legata al collo, andava in giro per la sala,
vanniannu appunto “Cu voli calia e
simenza”, fornendo i prodotti richiesti nel
tipico “coppu”, cono di carta paglia. Ma
c’erano anche i conosciuti carrettini a posto
fisso da Piazza Mazzini, da potta Iaci, ecc.
Oggi i siminzari li ritroviamo
durante le feste patronali e fiere locali, con
le apposite bancarelle ripiene di semi e frutti
secchi di ogni genere, nel rispetto di una
consolidata tradizione siciliana.
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Spaccaligna
o lignalòru,
chi raccoglieva e vendeva legna da ardere.
Tronchi e grossi rami venivano tagliati,
spaccati e fatti essiccare, per essere poi
consegnati alle calcare (fornaci), ai
panettieri, e quanti ne facevano richiesta
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Spiculiaturi,
spigularu o spicularu,
era colui che, dopo la mietitura del grano,
raccoglieva le spighe che rimanevano sul
terreno. Non era un vero mestiere, si trattava
di una sorta di faticosa attività alla quale
diversi lavoratori vi dedicavano
alcune giornate l'anno, percorrendo avvolte
lunghe distanze da casa, pur di assicurare un
pezzo di pane alla famiglia. Mio padre, che da
giovane di mestiere faceva
'u iurnataru, da
Catania è arrivato fino ad Aidone, con una
biciclette a copertoni rigidi (prive di camera
d’aria). Le spighe raccolte venivano
mazziate
dalle donne di casa per separare la granella
dalla paglia e pula (spagghiari). Si costituiva
così una scorta di grano, che all’occorrenza,
sapientemente razionato, veniva portato al
mulino per essere macinato e quindi
fari na
‘mpastàta ri pani.
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Stagnataru
e stagninu, il suo
lavoro consisteva nel fondere lo stagno e fare
le saldature per
aggiustari i vari tipi
di recipienti di rame, pentole, padelle, pentoloni,
quarare.
La stagnatura, necessaria per evitare la
tossicità del rame a contatto con gli alimenti,
veniva effettuata in laboratorio, mentre le
riparazioni si effettuavano lungo le strade,
anche perché spesso non si aveva la
disponibilità di altre pentole o padelle. Era
compito dello
stagninu realizzare ogni
sorta di utensile per cucina, brocche,
teglie, bracieri, grondaie, ecc. partendo dai
fogli di rame rosso o da lamiera zincata. Sul foglio
di lamiera si applicavano le forme per ottenere
l'oggetto desiderato e con un bulino si
disegnavano i contorni; poi con una cesoia si
ritagliava, si piegava, si modellava, e si
saldava. Prima ancora di attaccare il manico
agli utinsili, si
martellava tutto per eliminare quelle forme
lisce o lucenti e dare così maggior resistenza.
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Stazzunaru, chi
faceva vasi di argilla, e produceva ogni sorta
di laterizio come
madduni (mattoni),
canali
(tegole siciliane), e
quatretti
(piastrelle) e altri oggetti di uso comune
quali
tiani
(tegami), rasti
(vasi), quartari, bummuli
e fucuni,
dei quali materia prima era la creta, che,
asciugata al sole, veniva cotta nella
carcara
(fornace). La cottura era una operazione molto
delicata, che richiedeva una specifica
professionalità (carcaràru).
Trattasi di uno dei mestieri più antichi, in
quanto risale ad oltre 20 secoli prima di
Cristo.
Con l’avvento dell’industria dei manufatti
dell’edilizia e dell’utensileria per cucina, ha
perso quasi totalmente la sua importanza,
restando in vita solo quella parte riservata
alla lavorazione della
ceramica,
alla quale si rimanda.
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Umbrillaru
o paracquàru,
ombrellaio,
artigiano che riparava ombrelli (umbrèlla). Andava in giro con una cassettina con fili di
ferro, aghi, filo e spago di diverse misure, pinze, tenaglie e pezze di stoffa.
L'umbrillaru, quasi sempre malvestito,
si occupava della
sostituzione di bacchette, manici e anche per
effettuare rattoppi.
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Vaccaru, colui che
si dedica all'allevamento delle vacche, avendo
cura dell'alimentazione, della pulizia e della
mungitura.
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Vanniàturi o
abbanniàturi,
banditore
o strillatore, colui che, a viva voce suadente
(e talvolta stridente), accompagnato spesso da
un tamburo o da una tromba, da ogni angolo di
strada richiamava l’attenzione dei passanti e
dei residenti, per dare comunicazione di una
ordinanza, di un
fatto, di uno spettacolo, di un evento. Dopo il
rullo di tamburo o il suono della tromba, spesso
iniziava la
vanniata con le parole “Sintiti,
sintiti, sintiti.. Pri ordini do' nostru
Sinnacu ....“
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Vardaru,
varnamintàru o siddunaru,
facitor di basti (sidduni),
selle e
ornamenti vari
per equini. Ogni elemento
veniva realizzato "su misura", con idonee
imbottiture e cinghie, pettorali e incollature
in cuoio per proteggere l'animale e per
sfruttare al meglio la sua forza di traino.Di
tali lavori si occupava il
varnamintàru,
mentre il
siddunaru si occupava
dell'abbellimento
del basto.
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Vavveri, barbiere,
chi oltre a fare tagli di capelli e radere
barbe, ha collaborato, nei tempi, con il
chirurgo per asportare arti, per incidere
cravùnchi,
per asportare denti, ma riusciva anche a farsi
carico di applicare “sagnette” (sanguisughe) su
chi aveva necessità di un salutare salasso a
scopo terapeutico, divenendo così operatore
sanitario.
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Vinnignaturi,
raccoglitore di uva per fare il
vino. La bravura stava nella capacità di
tagliare i grappoli con sollecitudine, in modo
da tenere
il passo con i compagni di lavoro (tirarisi u
so’ filagnu), ma soprattutto nell’evitare di far
cadere chicchi d’uva a terra (no facemu coccia).
Al padrone o al
càpu chiùrma il compito
di controllare. L'uva raccolta veniva messa
in delle ceste
(cannistri, coffe o cufini),
costruite con canne intrecciate e verghe di castagno,
che, allorché riempite venivano trasportati a spalla dai
caricaturi sino al palmento. La
cannistra pi cogghiri 'a racina
aveva le seguenti dimensioni medie: altezza
cm.40, diametro di base cm. 35, diametro in alto
cm. 48; il fondo era foderato con sacco telato
impermeabile.
In mancanza dei
caricatùri, il compito di
trasportare l'uva al palmento spettava ai
vinnignaturi.
La vendemmia era una operazione piuttosto
complessa (che si concludeva con la consegna del
mosto), per la quale intervenivano diverse
figure
professionali.
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Vurdunàru,
mulattiere, persona che guida i muli o cavalli,
per il trasporto di merci e prodotti agricoli a
media distanza. Spesso u vardunaru conduceva na retina di muli (un
gruppo di sette muli),
legati in fila uno con l’altro. Egli, come “capu
retina” cavalcava la prima mula, che doveva
avere un carattere più mite e di struttura
robusta, poiché doveva portare sulla groppa,
oltre al vardunaru, prodotti della campagna.
Mulattera era la strada a fondo naturale
percorribile solo con le bestie, ma anche con
“lu strascinu o straula”(la treggia), antica forma di carro senza ruote,
tirato da buoi o muli e usato principalmente per
il trasporto dei covoni di grano. Nei terreni
accidentati si utilizza la
strauliddra (diminutivo di straula), treggia
da soma, arnesi di legno uguali, collegati per
mezzo di corde sulle bestie da soma, usati per
trasportare covoni, legna, fieno.
Spesso le mulattiere seguivano il tracciato
delle trazzere,
che
rappresentavano l’insieme delle vecchie vie di
comunicazione regionali, di cui alcune sono di
origine romana (strade consolari,
tractoriae). Trattasi di strade a fondo
naturale, della larghezza di m.37,68, pari a 18
canne e 2 palmi (1 canna = 8 palmi = 2,0648 m.),
destinate, prevalentemente, al trasferimento
degli animali da pascolo (transumanza delle
greggi). Esse, fino alla fine del 19°
secolo, rappresentavano quasi esclusivamente le
uniche vie di comunicazione "pubbliche".
A tal
proposito va ricordato che il Senatore Domenico
Bonaccorsi di Casalotto principe di Reburdone,
Presidente dell’Amministrazione provinciale di
Catania dal 1872 al 1895, il 19/12/1886 inaugurò
il primo ponte in ferro sul fiume Simeto, in
corrispondenza della contrada “Primosole”. Fino
ad allora i carrettieri e i viaggiatori
attraversavano il fiume a guado, con carri o
cavalcature, o su delle chiatte (giarrette).
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Vuttaru o uttaru,
colui che costruisce le botti per il vino. Era
considerato uno dei mestieri più difficili.
Il lavoro interamente fatto a mano, consisteva
nel sistemare dei listelli di legno (doghe) di
castagno o rovere (per le botti che dovevano
contenere vini pregiati o liquorisi), di diverse
dimensioni, in funzione della grandezza della
botte che si doveva costruire. La doga era
normalmente più larga nella parte centrale e più
stretta alle estremità. Dapprima le doghe
perfettamente piallate, venivano sistemate in
modo da formare un cerchio, al cui interno c'era
un fornello per alimentare una fiamma.
Il numero delle doghe variava in funzione della capienza
della costruenda botte; il fornello centrale
serviva per fare quel vapore necessario a
rendere il legno più duttile ed elastico alla
lavorazione e facilitare la necessaria curvatura
delle doghe, ed anche per liberare il tannino
dal legno, sostanza che passa facilmente nel
vino e lo rende tossico. Nel contempo si
preparavano i due coperchi (timpagni). Quindi,
con l’aiuto di altro personale si procedeva alla
chiusura della botte unendo tutte le doghe con i
coperchi che venivano stretti tra loro mediante
sei cerchi in ferro.
Infine, l'arte magica del
bottaio era ed è, per quei pochi artigiani
rimasti, quella di far aderire le doghe l'una
all'altra, tenerle con i cerchi metallici che
venivano poste naturalmente all'esterno
aiutandosi con uno speciale attrezzo a forma di
scalpello smussato con un lungo manico che si
colpiva con un martello. Tutto questo veniva
fatto senza l'uso di collanti, con cura e
professionalità per realizzare dei
contenitori che non facevano perdere il liquido
contenuto.
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Zabbarinaru o zammarinaru,
colui che si dedica alla lavorazione delle
foglie dell'agave (zabbara o zammara) per
la realizzazione di
spago, corde, di buona resistenza alla trazione.
Le foglie, essiccate al sole, vengono sottoposte
a successive azioni di scavezzatura, di
battitura, per allontanare la polpa e la parte
legnosa, di raspatura lungo i filamenti (per
staccarli ed isolarli) e di spazzolatura. Quindi
si procede alla filatura.
Nota.
Questa sezione è dedicata a tutti quelli che,
come mio padre, di “mestiere” facevano
i jurnatari, cioè non avevano un vero mestiere.
Erano tutti quelli che, prima e dopo delle
guerre 1935-1945 (durate per mio padre 7 lunghi anni, di
cui 2 in Africa), si dedicavano con amore a
qualsiasi tipo di lavoro, nell’intento di dare
da che vivere alla propria famiglia, nella più
assoluta modestia e semplicità.
Di lui mi resta proprio questo grande
insegnamento, e non solo.
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